Sentaro (Masatoshi Nagase) lavora in una piccola panetteria che serve dorayaki, dolci tipici ripieni di una speciale confettura di fagioli rossi, di difficile realizzazione. La sua vita, come la gestione della panetteria, subiscono una svolta radicale quando si presenta alla sua porta una signora di nome Toku (Kirin Kiki) che si offre di lavorare come cuoca. Dopo attimi di esitazione, spinto dal consiglio di Wakana (Kyara Uchida), sua cliente abituale, Sentaro accetta l’aiuto dell’anziana signora e il negozio rifiorisce da un giorno all’altro. An, il titolo originale del film, è una piccola parola che in giapponese sta a indicare la pasta segreta che la dolce Toku insegna e affida a Sentaro: ma la sua lezione più grande è da subito quella di “ascoltare le storie degli altri”. Seguendo il prezioso insegnamento del suo personaggio, quindi, Naomi Kawase dimostra di aver ascoltato la storia di Durian Sukegawa, autore dell’omonimo romanzo da cui la regista trae il suo primo adattamento da un’opera letteraria: nella stretta e piccola cucina di Sentaro, la Kawase riesce a librarsi con estrema naturalezza, mostrando la bellezza di due linguaggi differenti e svelando la soluzione tramite cui il solco dell’ incomunicabilità può essere oltrepassato. I due protagonisti divengono simbiotici: la pregiata ricetta svelata da Toku si scopre inadoperabile senza la pasta dolce di Sentaro, allo stesso modo in cui i cuori dei due protagonisti - soli nel mondo - rivelano lesioni ancora aperte solo dialogando l’uno con l’altra. L’operazione riesce in parte. La regista si dimostra a proprio agio all’interno della calda panetteria del suo protagonista e ci fa gustare odori e sapori di un dorayaki fatto per lavoro e di un altro fatto con amore, palesandone i dolci contrasti. Ma quando, nella seconda parte del film, si ritrova a mettere piede fuori dalla cucina per narrare il dolore di una malattia che può essere vista solo in un paio di mani sfigurate, la sua narrazione si fa incomprensibilmente dilatata e rischia di capitombolare nel dirupo di una retorica andante che stride con la naturalezza e genuinità precendente, facendosi carico di un dramma che vorrebbe (e dovrebbe) essere asciutto ma che dà l’impressione di essere imbottito di artificiosità. Questo perché Kawase, è evidente, risente delle ridotte possibilità concesse da una trama prestabilita, per lei angusta e problematica: spiccando da un aggregato di (non)caratteri piatti e livellati fra loro, l’anziana e tenera cuoca che comunica con il cibo e si fa insegnante di libertà riesce a essere l’unica figura tridimensionale. Al netto di questi problemi, ovvi per chi nel cinema ha sempre trovato la libertà assoluta (quella che la vita ha negato a Toku), resta nel cuore dello spettatore il ritratto dolceamaro di un perpetuo malessere che trova la propria continuità nel microcosmo ellissoidale di tre generazioni, raffigurate da tre persone ugualmente in cerca di speranza. Nelle intercapedini di un tempo narrativo esteso e via via più fiacco, la regista trova comunque il respiro giusto per mormorare il sommesso messaggio di chi, imprigionato nella propria gabbia, cerca una seconda possibilità e si rispecchia nell’immagine di un canarino che volteggia nell’aria, o nel rifiorire di un ciliegio a primavera. La storia di Toku è probabilmente, e inopportunamente, gridata. Ma è forse dando voce al suo messaggio, quello di ascoltare le storie di tutto e di tutti, che nell’impresa di salvare l’ insipido an di Sentaro la Kawase riesce a salvare anche il suo zuccheroso An.