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Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente

05/12/2015 12:00

Caterina Bogno

Recensione Film, Film Biografico, papa francesco,

Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente

Dopo il documentario Francesco da Buenos Aires – La rivoluzione dell’uguaglianza (Miguel Rodriguez Arias e Fulvio Iannucci, 2014), passato solo rapidamente nell

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Dopo il documentario Francesco da Buenos Aires – La rivoluzione dell’uguaglianza (Miguel Rodriguez Arias e Fulvio Iannucci, 2014), passato solo rapidamente nelle sale italiane, il cinema torna a raccontare la figura di Jorge Mario Bergoglio con una grande produzione di TaoDue per il gruppo Mediaset: Chiamatemi Francesco di Daniele Luchetti, primo film interamente di fiction dedicato a questo personaggio.


Chiamatemi Francesco nasce dall’iniziativa di Pietro Valsecchi (fondatore di TaoDue e già produttore, tra gli altri, di due film dedicati a Papa Wojtyla) che, nel 2014, trascorre un periodo a Buenos Aires insieme a Daniele Luchetti e a Martin Salinas (co-autore della sceneggiatura), intervistando chi aveva avuto l’occasione di conoscere Bergoglio durante i suoi anni in Argentina. Nel corso di questi “scavi” biografici è venuta alla luce una frase significativa che ha colpito gli autori alla ricerca di una direzione per il loro lavoro: «Jorge era un uomo preoccupato». Da qui il desiderio di risalire fino alle origini di questa preoccupazione, di capire chi è stato Jorge per comprendere, soprattutto, chi è oggi Francesco. Luchetti sceglie perciò di focalizzarsi sul periodo argentino di Bergoglio: dagli anni della giovinezza fino alla sera del 13 marzo 2013, quando la folla esultante di piazza San Pietro ha salutato quel nuovo Papa giunto «quasi dalla fine del mondo». A Buenos Aires Jorge sembra un ragazzo come tanti: peronista, con un gruppo di amici, una fidanzata e una professoressa di chimica alla quale resterà a lungo legato. Eppure già allora lo caratterizzano quella forza di volontà e quella fermezza di spirito che lo accompagneranno in tutto il corso del suo percorso di vita e di fede. Così lo accompagniamo quando, entrato nell’ordine dei Gesuiti, diventa Padre Provinciale e Arcivescovo di Buenos Aires. E nel frattempo l’Argentina affronta la dittatura militare di Videla e con essa i tremendi soprusi, la piaga dei Desaparecidos, le battaglie delle madri di Plaza de Mayo: in questo doloroso contesto Bergoglio si batte con coraggio e determinazione per difendere i perseguitati dal regime. Quello arrivato a Roma nel marzo di due anni fa è un settantenne che molto ha visto e molto ha vissuto. Di lui Luchetti racconta soprattutto la profonda umanità: quella di un cardinale che, camminando in una terrazza che dà sulla maestosa cupola di San Pietro - come in un film di Sorrentino - si dice: «alla vigilia del Conclave nella testa dovrei avere pensieri profondi, invece ho una canzone, un motivetto senza pretese…».


Distribuito in ben 700 sale italiane a partire dal 3 dicembre, pronto per essere acquistato da 40 paesi sia nella sua versione cinematografica che in quella televisiva di 4 puntate da 50 minuti ciascuna, accompagnato da un libro sulla vita di Bergoglio edito da Mondadori (scritto – non a caso – dal direttore editoriale della TaoDue), Chiamatemi Francesco ha le carte in regola per costituire un’operazione commerciale di sicuro successo. Nonostante la sua destinazione anche televisiva, il film si colloca ben al di sopra della media delle opere di questo genere, complici l’ampio spazio riservato al contesto storico e, soprattutto, le performances dei due attori protagonisti. A vestire i panni di Bergoglio sono infatti l’argentino Rodrigo De la Serna – l’Alberto Granado de I diari della motocicletta (2004) – e, per gli anni della maturità, il cileno Sergio Hernández. Alcuni passaggi di Chiamatemi Francesco risultano un poco affrettati, soprattutto quello dal cardinalato di Bergoglio alla sua convocazione per il Conclave. E, allo stesso modo, gli inserti che rappresentano i momenti immediatamente precedenti all’elezione sembrano soltanto abbozzati e non approfonditi a sufficienza. Eppure, tutto sommato, Luchetti può tirare un sospiro di sollievo: il rischio “santino” che tanto lo preoccupava durante la scrittura del film può dirsi scongiurato.


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