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The Hateful Eight

03/01/2016 11:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

The Hateful Eight

Un western particolare che gronda humour, estetica e tensione

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Otto (più uno) sotto a un tetto sono i protagonisti del nuovo film di Quentin Tarantino, l'ottavo appunto, dal simbolico titolo The Hateful Eight: un western quasi monolocation che riporta il regista in sala a distanza di tre anni dal suo ultimo film, Django Unchained. Otto gli odiosissimi protagonisti di storie verosimili e sanguinarie, costretti all'interno di uno spazio limitato immerso in una bufera di neve.


Tanto tempo fa, per l'esattezza qualche anno dopo la Guerra civile americana, una carrozza diretta a Red Rock cerca di seminare una tempesta di neve che sta per isolare il Wyoming. All'interno c'è un famoso cacciatore di taglie, John Ruth (Kurt Russell), la sua preda Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) e due uomini incontrati per strada, il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex soldato nero dell'Unione diventato anche lui un cacciatore di taglie e Chris Mannix (Walton Goggins), il nuovo sceriffo della città. Per ripararsi dalla bufera si fermano in un casolare di montagna in cui sostano le diligenze. All'interno fanno conoscenza con altri quattro rifugiati: Bob (Demian Bichir), che si occupa del casolare in assenza della proprietaria; Oswaldo Mobray (Tim Roth) il boia di Red Rock, il cowboy Joe Cage (Michael Madsen) e il generale Sanford Smithers (Bruce Dern). Gli otto sono spietati, dal passato torbido, abituati a uccidere e a mentire. Cosa succederà al termine della tormenta di neve?


È di nuovo western, grandissimo western. Ma non fatevi incantare. Non ci troviamo davanti a un regista che ripropone pedissequamente tutti gli elementi di un film di genere. All'interno piuttosto sudisti contro nordisti e tantissima sprezzante acredine razziale, ma non solo. Il film è anche un giallo crudele e claustrofobico, girato in 70mm e quasi totalmente in interno, dal ritmo serratissimo. Tarantino prende clichè narrativi e li fa propri, adattandoli a una sua grammatica cinematografica che è personalissima ed è arte allo stato puro. Il risultato è un lavoro di particolare cifra stilistica, che gronda humour, estetica e tensione: un cinema che diverte e che stordisce, e non risparmia colpi di scena. Il materiale narrativo è un intreccio ossequioso del genere giallo, che rimanda a una solida impalcatura hitchcockiana e strizza l'occhio ad Agatha Christie (Dieci piccoli indiani) e ad Anthony Mann. In un piccolo e lontano luogo in mezzo al niente si rappresenta un grande dramma e ogni elemento scenico è funzionale a strutturare un thriller nel quale l’identità e le azioni dei personaggi sono sempre ambigue e sfuggenti. All'interno c'è un pò di tutto, e tutto in maniera magistrale. Un fiume di narrazione nella narrazione, impreziosita da un flashback con un meraviglioso piano sequenza. Tarantino isola la scuderia dei suoi migliori attori e li lascia a briglia sciolte a farneticare di guerra, politica, schiavitù e giustizia, ma a modo suo, cioè con un vistoso e generoso spargimento di sangue.


Diviso in capitoli, con stile e codici visivi teatrali, The Heitful Height riproduce un microcosmo dei momenti più cupi della storia americana, della quale tutti i personaggi sono vittima e complici allo stesso tempo. In quel microcosmo siamo inermi davanti a dialoghi sboccati, crudeli, a tratti agghiaccianti. Siamo impotenti davanti a personaggi portatori sani di un male di vivere precipitato della storia, che si provocano e si raccontano al ritmo di una ballata folk e del miglior Ennio Morricone. C'è così tanto citazionismo (Sergio Corbucci, Sergio Leone, Ombre rosse di John Ford, La cosa di John Carpenter) autocitazionismo (Le iene), scandalo ed eccesso, emorragia verbale e visiva; eppure tutto questo si regge senza intoppi su una così esile struttura che non si può che considerare questa pellicola l'ennesima prova di un gran genio del cinema senza lieto fine.


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