Dopo aver co-diretto pellicole mediocri come Ghost Rider - Spirito di Vendetta e Gamer, Mark Neveldine esordisce in cabina di regia firmando The Vatican Tapes, un horror demoniaco e apocalittico che, pur strizzando costantemente l’occhio ai film di genere, non aggiunge nulla di nuovo. Nel giorno del venticinquesimo compleanno della sua fidanzata, Pete le organizza una festa a sorpresa nel giardino di casa, invitando, per l’occasione, anche il suo cattolicissimo suocero. Durante il taglio della torta, la giovane Angela Holmes (Olivia Dudley) si taglia un dito, perde i sensi e comincia a comportarsi in modo strano. Viene ricoverata subito in ospedale, dove, senza alcun motivo, perde la vita un poliziotto. Successivamente, la ragazza finisce in una clinica psichiatrica ma le cure e la terapia riabilitativa non sembrano funzionare. Dopo aver causato la ribellione di tutti i pazienti e il loro reciproco massacro, Padre Lozano (Michael Pena) teme che Angela sia posseduta da un demone e, quindi, si rivolge al Vaticano, che manda Padre Brum (Peter Andersson) ad effettuare l’esorcismo. Ma non tutto va come previsto… Utilizzando immagini di repertorio e interviste a membri dell’alto clero che hanno avuto esperienze ravvicinate con il Diavolo, Neveldine introduce la storia della sua giovane protagonista, fiero che sia entrata negli archivi segreti del Vaticano. Dopo aver spiegato le metodologie usate da Satana per scegliere le sue vittime e per entrare in possesso dei loro corpi, il regista utilizza un lungo flashback per mostrare il modo banale con cui Angela si rivela la prescelta. Comportamenti violenti, crisi compulsive, legami ambigui con i corvi – da sempre, messaggeri del demonio – e rifiuto incondizionato delle regole, invadono il corpo e l’anima della ragazza, senza che né la scienza né le preghiere possano impedirlo. L’autore non abusa della tecnica del foot-footage, ma la inserisce in un contesto più ambiguo, in cui critica sociale, satira e sarcasmo allo stato puro accompagnano la parabola discendente della protagonista. Gli ammiccamenti costanti ai grandi classici, le virate sensoriali e stridule della musica di genere e il citazionismo frenetico ed esasperato, però, rivelano ben presto il timore del confronto con l’originale. William Friedkin sapeva utilizzare le ombre, i silenzi e i vuoti per accrescere il senso di paura e di terrore degli spettatori; Neveldine, invece, li utilizza per fuggire, per nascondersi e per disperdere le tracce di quello che, a tutti gli effetti, si rivela una pellicola insipida e catastrofica.