Gli anni Novanta sono stati il periodo Rosa, delle commedie sentimentali e dei successi al box office come American Gigolò, Ufficiale e Gentiluomo, Pretty Woman. Poi, nei Duemila, film come Chicago e Hachiko interrompono una carriera da sex symbol per una maturità votata a un cinema più piccolo, persino più significativo, ma non mai troppo ricompensato dal pubblico. Dopo il tiepido Ritorno al Marigold Hotel e l'ancora inedito (in Italia) Time Out of Mind, Richard Gere torna con Franny a interpretare il ruolo del contemplativo che ormai sembra stargli a cuore. Franny (Richard Gere) è milionario, ma solo. Senza famiglia né bisogno di lavorare, si dedica a dimenticare le ombre del proprio passato con le droghe e la filantropia. Cinque anni dopo l'incidente che gli ha portato via gli affetti e la voglia di vivere, Olivia (Dakota Fanning), figlia degli unici amici che avesse mai avuto, arriva a Filadelfia a chiedergli aiuto. Franny si sentirà allora in dovere di prendersi cura della ragazza, anche a rischio di esagerare. Il primo lungometraggio di Andrew Renzi, da lui anche sceneggiato, sembra voler stabilire un punto di contatto fra la carriera passata e quella attuale del divo americano. Un film sentimentale, con una trama di sensi di colpa, espiazione e nuovi inizi, sospesa nel mistero e nell'indagine interiore del suo protagonista. Una storia che ha in sé un certo romanticismo e che porta Gere a tornare agli occhi languidi dei suoi esordi e al ruolo di milionario che lo ha reso famoso. Ma Franny - va detto - somiglia più a Autumn in New York che a Pretty Woman: una sfilata melensa di cliché sociologici e idee già in uso, con una regia accorata che non convince lo spettatore ma si limita a tirarlo in mezzo ai drammi del protagonista, senza che questo ne sia mai veramente coinvolto empaticamente. Del resto oscillando fra fanatismo, autolesionismo, senso paterno e isteria, Franny non è uno che sta simpatico; va tuttavia riconosciuta a Richard Gere una certa abilità nel rendere la superficialità e il cambiamento (frettoloso) di questo personaggio frivolo, che la sceneggiatura sbrigativa non aiuta a capire a pieno. Viene da dire che, senza un attore votato al romance, questo personaggio sarebbe stato del tutto fallimentare. E invece le prove maschili - Gere, così come Theo James - si rivelano in grado di trasformare maschere di routine in personaggi vivi che, se anche non del tutto positivi, hanno una loro vitalità sullo schermo. Non si può dire lo stesso di Dakota Fanning, che sembra non riuscire a includersi nella performance dei suoi compagni di scena e resta isolata a un ruolo involontariamente minore, pieno di stereotipi e lacrimevolezze. Anche volendo farsi trascinare in un (altro) film pieno di pianti e famiglie infelici, Franny non arriva al cuore e, così privo di pathos, ogni sua mancanza strutturale a livello narrativo emerge prepotente: l'ingenuità dei continui flashback in stile soap opera (incapaci di essere davvero esplicativi); la ripetitività del protagonista; le tiepide relazioni fra i personaggi. Eppure - furbamente - Andrew Renzi in qualche modo costringe ad attendere la fine: per restare delusi e definitivamente convinti che dieci minuti finali non possano mai salvare una restante ora e mezzo a domandarsi se non era meglio tornare a Ufficiale e Gentiluomo.