Presentato in concorso alla Berlinale 2015 e vincitore dell’Orso d’argento, El Club è l’ultimo lavoro del cineasta Pablo LarraÃn, una pellicola che solo apparentemente sembra allontanarsi dalla filmografia del regista (la bellissima "Trilogia della dittatura" composta da Tony Manero, Post Mortem e No - I giorni dell'arcobaleno, in cui racconta gli anni di Pinochet), e che si inserisce perfettamente nel suo lavoro di denuncia del male prodotto dagli uomini come precipitato di dottrine omnicomprensive. Questa volta il suo obiettivo coglie gli scandali della Chiesa cattolica con sottile ironia e ferocia, con una liturgia dell’orrore che allontana definitivamente lo spettatore dal concedere ai suoi protagonisti qualsiasi forma di salvezza o di redenzione. La storia è ambientata in un piccolo villaggio della costa cilena, dove vivono quattro ex preti, allontanati per volere delle gerarchie ecclesiastiche dall’esercizio religioso, come forma di espiazione dei propri peccati. Abitano all’interno di una stessa casa, con una suora che bada al loro esercizio psico-fisico e ai momenti di penitenza. In realtà , questa piccola comune sembra non preoccuparsi del motivo della propria reclusione e passa le giornate bevendo e addestrando un cane a vincere delle competizioni di corsa. La rottura dell’equilibrio domestico avviene con l’arrivo di un nuovo inquilino, un ex prete pedofilo, che non regge la pressione psicologica legata alla penitenza e si suicida. La Chiesa è costretta così a mandare un emissario per far luce sulla verità e chiudere il maggior numero di rifugi sparsi per il mondo. Cosa succede quando "un cattivo" è in realtà qualcuno che per vocazione non dovrebbe esserlo? Qualcuno che rappresenta un eletto, che ha una missione; qualcuno a cui le masse si rivolgono, adoranti e supplicanti, per ricevere indulgenza? Succede che è difficile ammettere che abbia peccato, che si riesca a riconoscere il marcio che è dentro quelle azioni raccapriccianti. La macchina da presa di LarraÃn ci mostra uomini spogliati con disonore da vesti religiose, ma che non hanno perso la convinzione del loro magistero così come non hanno perso la fede; non ammettono di avere peccato e trovano nell’oblio un dolce premio di consolazione. Pablo LarraÃn racconta ancora pagine drammatiche della storia, scegliendo di ambientarle nuovamente in Cile ma universalizzandole attraverso il passaggio dalla dittatura di Pinochet ai delitti della Chiesa rimasti impuniti. Con scene crude e dolorose, con dialoghi osceni, sboccati e privi di qualsiasi pudore, Larrain mette in scena la sofferenza di bambini abusati, vittime di carnefici amati, di guide spirituali alle quali si erano consegnati senza riserve. La grammatica narrativa, le scelte stilistiche, non sono sbranate da questa imponente tematica filmica e dimostrano la grande capacità registica di far emergere la propria visione attraverso la messa in scena delle indagini, che graffiano lo spettatore colpito da verghe di incomprensibili nonsense. Una realtà che toglie il respiro, ambientata in un luogo preciso che è un luogo qualunque, il dimenticatoio in cui convergono tutte le malefatte impunite del mondo, fotografato magistralmente da Sergio Armstrong, con un trattamento nebuloso e irritante insieme. Filo conduttore con i film precedenti è proprio questo senso di impunità , di incoscienza. L’imbarazzo di chi osserva dal di fuori è niente, e nulla può. L’orrore, fattosi uomo attraverso i vizi dei suoi protagonisti, prodotto da qualcosa di più grande, un sistema corrotto, viene svelato attraverso l’artificio retorico dell’indagine, ma non c’è soluzione finale. C’è solo un tentativo di dimostrare che quelle luci e quel buio separati nella Genesi ("Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre"), in una società omertosa e inquinata, non possono che tornare inevitabilmente a mescolarsi, in un purgatorio perpetuo fatto di punti di vista annebbianti.