Con la pedanteria documentaristica che lo contraddistingue, Gianfranco Rosi si trasferisce per un anno a Lampedusa e racconta, senza mezzi termini, l'esperienza dell'isola siciliana tra chi ci vive da sempre e chi vi è solo di passaggio, come i migranti che ne affollano le coste. Il regista - già premiato a Venezia 70 per Sacro Gra - è l'unico italiano in concorso alla Berlinale 2016. E in una competizione di film magari non tutti eccezionali ma senz'altro più coraggiosi, presenta una pellicola che sembra concepita ad hoc per il pubblico internazionale ma soprattutto europeo. Un film che parla di attualità ma che è anche un'immersione nella piccola realtà lampedusana (come la didascalia iniziale ci ricorda, un'isola di soli 20 km quadrati, più vicina alla costa africana che a quella italiana) e di quanto questa sia stata sconvolta e radicalmente cambiata dalla necessità di accogliere. Lo fa con gli occhi di un bambino di dodici anni che, per un'ora e mezza, diventano gli occhi di tutti. Forse il pubblico tedesco sarà colpito dal racconto di Rosi e magari questo film aprirà un più virtuoso dibattito sulla questione dell'immigrazione, come la vede il sud e come il nord Europa. Di certo c'è che, al contrario di Sacro Gra, una storia italianissima ma di respiro incredibilmente universale, Fuocoammare è qualcosa che in Italia (e non solo) avevamo già visto. Dopo tanto discutere per mezzo stampa e artistico sulla questione migranti e sui luoghi protagonisti di questo fenomeno - in cui Lampedusa ha di certo un ruolo centrale - Rosi sembra arrivare in ritardo di qualche anno, con la sua narrazione pretestuosamente "in mezzo alla gente". Il protagonista Samuele e i suoi amici, i commenti quotidiani delle donne, le storie vere di medici e pescatori: ogni riflessione di Fuocoammare sembra essere già stata di Crialese o di Giordana, autori che però sono arrivati al tema anni e anni prima che questo diventasse un'emergenza. Le ingenuità che, quindi, a Terraferma e Quando sei nato non puoi più nasconderti potevano essere perdonate sembrano adesso aver cristallizzato uno stile retorico, privo anche dell'originale declinazione poetica che impregnava il precedente Leone d'Oro di Rosi. Fuocoammare è un film che osserva e non parla. Eppure è colmo di parole superflue e di visioni esplicite, come se per differenziarsi dalle opere coeve, il regista dovesse dire di più, anche il non richiesto. E per ogni bella immagine che supera il confine dell'inchiesta (una su tutte, il lungo primo piano del migrante) c'è un momento in cui allo spettatore sembra essere chiesto di intervenire, partecipare, immedesimarsi. Fuocoammare è un film importante, che porta al centro dell'Europa una questione centrale; un racconto catturato direttamente dalle sponde in cui si cerca di esiliarlo. Proprio per questo, all'unico italiano a Berlino 66 un tocco di delicatezza in più - nei confronti delle storie proposte, dei lampedusani, dei viaggiatori capitati sull'isola - non avrebbe guastato.