Glen (Chris New) e Russell (Tom Cullen) s’incontrano un venerdì sera in un locale gay. Tra i due nasce immediatamente una forte attrazione, che li porterà a passare la notte insieme e a svegliarsi insieme la mattina dopo. Ciò che sembrava solo intesa sessuale, durante il weekend trascorso insieme, si trasforma ben presto in un sentimento. Peccato che lunedì Glen abbia già in programma di partire per gli Stati Uniti. Presentato in numerosi festival, tra cui quello di Roma nel 2011, il secondo lungometraggio di Andrew Haigh viene distribuito in Italia solo nel 2016, dopo il successo di 45 Anni. Girato a Nottingham con un bassissimo budget (si stima attorno alle 120.000 sterline) e in brevissimo tempo, Weekend fa del suo essere un film sfacciatamente indipendente la vera forza. La traballante macchina da presa, i dialoghi farfugliati dei due sorprendenti attori, i luoghi prevalentemente chiusi e scarni (ma allo stesso tempo costellati di dettagli), ne fanno un film tipicamente voyeuristico. Haigh non ha voluto, sebbene tutto possa suggerire il contrario, rappresentare la storia d’amore fra due persone. Il rapporto sessuale, poi sfociato in relazione sentimentale, di Glen e Russell porta a qualcosa di più. Weekend è, infatti, un brillante dibattito, un confronto aperto e acceso fra due mondi diversi: la storia d’amore fra i due protagonisti, che sono uomini, non può non essere inevitabilmente ancorata a un discorso sull’identità sociale: quella che Glen ha da tempo accettato e che Russell vorrebbe sopprimere sotto una maschera. Essere gay, per Haigh, implica un complesso discorso sull’identità sociale. E il regista, soprattutto traendo ispirazione da Before Sunset e Before Sunrise di Richard Linklater, è tanto abile nella messinscena di una love story che si consuma tra le parentesi di un fine settimana e, per questo, a maggior ragione, necessita della tipica attenzione per i dettagli quotidiani. Svelare due poli opposti di uno stesso sistema è possibile solo grazie al confronto, a quel brillante dibattito che si innesca fra i due amanti e che prende piede ogni volta che si stabilisce un dialogo fra i due. È solo così che Haigh riesce a escludere la società stessa che, al contrario, vorrebbe emarginare i due ragazzi: altre persone al di fuori di Glen e Russell sembrano quasi non esistere, se non attraverso le loro parole. L’assenza di colonna sonora, in Weekend, fa sì che un silenzio circondi ogni luogo, in modo tale da dare risalto alle parole, ai sospiri e, soprattutto, ai rumori. Il punto di vista dello spettatore combacia, quindi, con quello di Russell che non vuole vedere ciò che non è pronto a vedere se non dopo aver assimilato le differenze col proprio partner tramite il raffronto. Non a caso, i rapporti sessuali fra i due uomini sono sempre percepiti tramite il sottratto, il “non-visto”: lenzuola stropicciate, tracce sul corpo, registrazioni audio della notte trascorsa insieme. Ed è infatti solo nel finale, quando finalmente le due identità sono state tratteggiate e apprese in maniera completa (fra i due individui stessi, e non solo dallo spettatore), che possiamo assistere all’atto nel suo svolgersi, grazie alla macchina da presa di Haigh che insiste sulla pelle sotto la luce calda sottolineata dalla fotografia di Urszula Pontikos. Weekend è quindi, indubbiamente, una storia d’amore illustrata con una narrazione asciutta, svuotata del superfluo e dell’inessenziale: ma se la questione che riguarda l’emarginazione sociale è condizione necessaria (seppur non sufficiente, ed è qui che entra in gioco la componente emotiva) per narrare la storia d’amore fra Glen e Russell, i due uomini sono interpreti di due cosmi in grado di scoprire intesa solo aprendosi al diverso. Così Weekend si fa non solo attiva presa di posizione dell’autore stesso nei confronti di chi deve essere progressivamente “aperto” al nuovo, ma soprattutto vitale e luminoso atto d’amore per il dialogo: la più autentica e immediata manifestazione di accettazione del dissimile.