Per il regista sudcoreano, la filosofia Buddhista si rende lingua e spirito demagogico attraverso cui veicolare una suggestiva parabola zen: un monaco (Oh Young-Su) vive con il suo giovane discepolo (Seo Jae-Kyung) eremita in una casetta galleggiante situata nel mezzo di un piccolo lago in Corea. In concomitanza con lo scorrere delle stagioni, il giovane apprenderà dall'anziano gli insegnamenti utili per raggiungere la purificazione e allontanarsi dai mali terreni. Kim Ki-duk esprime se stesso creando una risposta alla voglia di comprendere ciò che in vita appare incomprensibile. Il cinema diventa così un modo per sperimentare, decomporre le emozioni per poi scandirle in un unico, abbagliante ciclo di gesti. A differenza de L'isola (2000), l'allontanamento qui richiama la ricerca, fortifica e ristabilisce quell'equilibrio spirituale affondato nel gelido mare industrializzato. Controvertibile e transitorio: il film comprime significati ontologici e metafisici, lavorando a stretto contatto con l'essenza della natura e l'esistenza umana. Lo schema cadenzato e silente avvalora la sensazione di star assistendo ad una fotografia cangiante, che si evolve a seconda degli occhi di chi la osserva. Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera è un reflusso di esperienze, riflessioni, attenzioni che racchiudono in sintesi la ciclicità della vita. Un racconto che si armonizza alle scenografie attraverso i colori e i cambiamenti delle quattro stagioni e (materialmente) grazie ai suoi elementi naturali: il ghiaccio che solidifica, il legno che immortala, il sole che riflette e l'erba che suggerisce un'importante distinzione tra buono e cattivo. Gli eventi raccontati dal regista (e da lui interpretati nella seconda fase - quando il ragazzo diventa adulto) creano una catena di ripetizioni concentriche: l'apprendimento, la pratica, il rifiuto, la ricerca del benessere spirituale e fisico sono mutamenti di un bambino diventato ragazzo, poi adulto e infine anziano, il quale a sua volta trasmetterà questi insegnamenti ad un altro bambino creando così quel flusso continuativo chiamato esistenza. «L'ossessione dei desideri, la crudeltà dell'innocenza, il dolore nelle intenzioni delittuose e l'emancipazione nelle lotte – come afferma lo stesso regista – sono le qualità mutanti che hanno reso possibile illustrare la gioia, il dolore, l'ira e il piacere». E per immagini dunque, scorgiamo assorti i mutamenti di una vita; bellezza e debolezza insieme di un fare cinema (sensibile) decisamente alto, ma non per tutti.