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Into the Wild - Nelle terre selvagge

22/06/2009 11:00

Danilo Cristaldi

Recensione Film,

Into the Wild - Nelle terre selvagge

Sean Penn dirige un'opera sincera, coraggiosa

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Nel 1990 il ventiduenne Chris Mcandless lascia il suo paese d'origine (Georgia) e, creandosi una nuova identità, evade dalla famiglia e da tutti i suoi beni materiali per iniziare un viaggio alla ricerca della libertà e della natura, preferendo principalmente una meta: l'Alaska.


Tratto dal romanzo di John Krakauer, Into the wild rappresenta, sotto le cadenze di un film on the road, un potente ritratto dell'anima; caratterizzato da un passo lento ma deciso, la sceneggiatura di Sean Penn - come pure la regia - adotta uno stile classico e originale al tempo stesso, frutto di una serie di esperienze cinematografiche qui abilmente integrate. Nel tracciare la figura di un giovane smanioso di trovare la libertà, Penn costruisce un film antropologico che si presta a diverse chiavi di lettura: politica, filosofica, religiosa, sociologica.


Un'opera sincera, coraggiosa. Divertente e euforica in superficie, rivela un carattere amaro e dolente. I paesaggi, bellissimi e splendidamente fotografati da Eric Autier, riflettono l'interiorità del protagonista lungo tutto il suo cammino. Nonostante la lunghezza e qualche impercettibile dose di ruffianeria, funziona, coinvolge, sorprende e commuove. È un inno alla libertà e alla gioia di vivere, un trattato sulla consapevolezza di essere uomini e non dei meccanici prodotti della nostra società. Sullo sfondo di una natura pura, incontaminata dalle scorie nocive dell'umana società, Penn avanza una tesi utopica sulla volontà di riuscire a cambiare la propria posizione, sociale e morale, politica e spirituale: nel farlo, si sente la mano di un regista energico, che rifiuta qualsiasi inibizione, instaurando la consapevolezza di ricevere un messaggio, più o meno interpretabile, deciso, forte, sincero. Nello scavare a fondo sulle complesse ragioni che portano Chris a svegliarsi da un opprimente incubo ad occhi aperti, la sceneggiatura procede lentamente, lasciando ampio spazio ad aneddoti crepuscolari e malinconici, creando un'atmosfera di rara suggestione. Non vi sono compiacimenti in questa solitaria e impassibile odissea dello spirito ma solo un'autentica gioia di narrare e mostrare, eliminando costantemente il dubbio di qualsiasi indecisione stilistica. Nell'affrontare alcuni temi (rapporto con la famiglia, voglia di evadere, critica alla società) può risultare a tratti forzata e programmatica la sua struttura, ma sono difetti che si dissolvono subitamente nella grazia di un tocco magico, diretto e inimitabile.


Attraverso una calcolata naturalezza, una sensibilità ipereccitata e uno sguardo lucido, lo spettatore si immedesima facilmente nel protagonista, provando piacere nel partecipare attivamente al suo vagabondaggio reale, morale ed esistenziale. Penn partecipa con il suo carattere onnivoro, utilizzando tutte le cifre stilistiche a sua disposizione: primi piani, ralenty, split-screen, carrellate aeree. Un'ammirevole tecnica di brio audiovisivo che, sorprendentemente, stimola lo spettatore in più di un'occasione, come nella memorabile scena in cui un orso fiuta il protagonista, lo guarda e lo lascia libero: la natura, più che cattiva, è impassibile al suo destino.


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