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Anamorph

03/07/2009 10:00

Giuseppe Salvo

Recensione Film,

Anamorph

L’anamorfosi è una tecnica pittorica usata a partire dal Rinascimento e in voga, da allora, soprattutto in quei pittori che desideravano occultare immagini all’

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L’anamorfosi è una tecnica pittorica usata a partire dal Rinascimento e in voga, da allora, soprattutto in quei pittori che desideravano occultare immagini all’interno delle proprie opere: celandoli al primo sguardo dell’osservatore, essi rendevano visibili tali oggetti significanti guardando il dipinto da un preciso punto di vista, “risolvendone” così la prospettiva distorta. Il cinema thriller ha ereditato più di ogni altro medium il procedimento anamorfico, con i suoi giochi ad incastro, i suoi rebus contorti, i suoi indizi apparentemente discrepanti e casuali. Elementi di un puzzle da combinare soltanto se perfettamente complementari.


Il detective Stan Aubray (Willem Dafoe) ha lasciato la sezione omicidi della polizia da quando l’uccisione di una ragazza per mano di un efferato serial killer gli ha stravolto la vita. Dopo cinque anni, il ritrovamento di un cadavere induce gli addetti ai lavori a pensare a quello stesso omicida seriale, che rimase ucciso durante l’arresto. Quando Aubray viene richiamato per indagare sul caso, nuovi omicidi vengono commessi e tutti secondo il medesimo contorto modus operandi: le scene del crimine vengono allestite usando la tecnica anamorfica, attraverso cui l’assassino manipola le leggi della prospettiva per incanalare l’attenzione degli indagatori verso un'unica rabbrividente immagine. La ricerca di questo folle imitatore condurrà Aubray ai fantasmi del passato, al lento incedere negli oscuri recessi della memoria, e al dubbio asfissiante che da sempre si insinua nella mente del detective: l’uomo ucciso anni prima potrebbe non essere stato lo spietato killer che la polizia cercava.


Anamorph esce in un contesto pericolosamente indebolito dalle ultime produzioni di genere, volte a incenerire i flebili barlumi di interesse rimasto verso un campo pressoché saturo. L’intrattenimento legato ad omicidi seriali, ai labirinti semantici di indizi e indagini, menti assassine esponenzialmente sempre più contorte rischiano di assuefare la tensione fruitiva, attraverso una ripetitività mascherata da elementi eterogenei, ma strutturati omologamente – e da essi esasperatamente dipendenti – ai capisaldi del genere. È da questa valle paludosa che il film di Henry Miller emerge a dare fiato. Pur richiamando fortemente gli elementi canonici del thriller poliziesco, senza nemmeno forzare la tradizionale consequenzialità di vicende e situazioni (la coppia di detective a caccia di un assassino seriale), il regista – anche sceneggiatore – ne sfrutta invece la linearità, e punta tutto sull’impianto visivo del film. Le inquietanti progressioni iconologiche sulle scene del crimine, le visionarie e disturbanti contorsioni visive arrivano d’impeto nell’immaginario dello spettatore. Combinando il riferimento all’anamorfosi, tecnica usata quasi sempre per celare significati la cui scoperta e il cui approfondimento genera di per sé tensione emotiva, con lo scavo per cunicoli mnemonici e psichici, Miller annebbia la coscienza dei suoi personaggi fino all’epilogo, in un tripudio di torbida corruzione, deliranti parti retinici e disperante risoluzione catartica. Il registro pittorico e il mondo del macabro si intersecano, e anzi si attraversano, rendendosi strettamente e reciprocamente necessari, conturbanti come la scomposizione cubista dei corpi, o la deformazione e degradazione della carne di Francis Bacon.


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