Era facile cadere nella trappola del pietismo realizzando un film basato sull’omonimo romanzo di Jodi Picout. La custode di mia sorella sceglie invece la strada dell'analisi psicologica, che apre la porta su una dimensione dell’amore familiare insolita e arriva perfino a sfidare le più salde convinzioni etiche. Nick Cassavetes è un regista che riesce a personalizzare tutti i suoi lavori, inserendosi in un genere spesso melodrammatico, e aumentando di lavoro in lavoro l’innovazione nell’indagine delle emozioni umane e nella loro resa sullo schermo: era già successo con She’s So Lovely e il recente Alpha Dog. Anche se stavolta si trova fra le mani del materiale convenzionale sia nella forma che nei contenuti, non smentisce la sua abilità di costruttore di psicologie. La storia esplora il dolore di una famiglia abituata da anni a convivere con la malattia della figlia. Mantenendo inalterata la struttura del libro, che assegna ad ogni protagonista della vicenda un proprio personale punto di vista, la vicenda viene smembrata e raccontata dai vari componenti della famiglia, procedendo con flashback progressivi, e connotando la pellicola di un interessante e poco convenzionale ritmo narrativo, soprattutto nella parte centrale del film, focalizzata sulle tappe più significative della storia. Anna, una ragazzina di dodici anni, è stata concepita con ingegneria genetica dai genitori, con lo scopo di salvare la vita alla sorella maggiore, affetta da una particolare forma di leucemia. La ragazzina decide ad un tratto di far causa ai genitori e li accusa di averla privata del controllo del proprio corpo, richiedendo la cosiddetta indipendenza medica. Infatti, dopo aver donato cellule staminali, sangue e midollo osseo, le viene chiesto di donare un rene per salvare la sorella Kate da una grave infezione: è a quel punto che Anna decide di rivolgersi ad un avvocato. La piccola Anna Fitzgerald è interpretata dall’ottima Abigail Breslin, rivelazione di Little Miss Sunshine. Il suo ruolo, che in apparenza potrebbe sembrare cruciale, viene però messo in secondo piano da quello di Sofia Vassilieva (la sorella Kate) attrice di matrice televisiva, ma perfettamente a suo agio nell’impegnativa interpretazione, convincente e senza forzature, della ragazza affetta dalla terribile malattia. Buone le prove di tutto il cast, in particolare quelle di Cameron Diaz (Sara Fitzgerald) e Alec Baldwin (l’avvocato Campbell Alexander). La prima spesso relegata in ruoli frivoli a causa del suo aspetto esteriore, è qui impegnata in una di quelle interpretazioni drammatiche che ha dimostrato di saper affrontare con successo. È il suo il personaggio più difficile, che si ama o si odia; quello di una madre disposta a tutto per far vivere sua figlia, quasi accecata dal troppo amore, tutta protesa a dimostrare qualcosa a se stessa e al mondo, rabbiosa ma toccante: lucida incarnazione di un genitore che vive un dramma simile. Baldwin dà vita invece all’avvocato di Anna, famoso e sensibile, in un piccolo ruolo, in cui riesce però ad esprimersi al meglio, e al quale conferisce un tono brioso; sue sono le poche battute ilari del film. Piccolo cameo anche per Joan Cusack (Donne in carriera, In & Out), il giudice che conduce il processo tra figlia e genitori, donna intensa e fragile, combattuta dal dubbio di prendere la decisione giusta. Nonostante la rivelazione finale, il film si conclude in modo piuttosto convenzionale, ma comunque adatto al delicato argomento trattato.