Ovvero la formula negativa più comune usata come risposta universale alla multiforme congerie di domande sulla vita futura, sui progetti e sulle responsabilità che i giovani di aspri giorni presenti stentano a riconoscere e ad accollarsi. Più vicino ad un incerto e disorientato esistenzialismo che alla celebre filosofia socratica, Non lo so rappresenta il senso di sbigottimento e spaesamento della gioventù moderna, stretta nella morsa di un sistema (italiano) omologante e scevro di possibilità da offrire a questo quarto stato di precari e fuori corso assetato e demoralizzato, prosciugato di idee e coraggio di vivere, che incede verso un pessimismo tragi-co(s)mico. I fratelli Di Felice si mettono in scena (registi e attori protagonisti) nel loro primo lungometraggio, dopo l’apprezzato corto Troppo tempo per pensare, con un pretesto elementare. Gianni e Marco sono due fratelli abruzzesi: il primo ha grossi progetti per ingrandire l’impresa edilizia ereditata dal padre e il secondo ha scelto di frequentare, a tempo indeterminato, l’università a Bologna. Quando l’agenzia immobiliare fallisce, i due sono costretti a rivedere gli ultimi anni della loro vita, del loro sbiadito rapporto fraterno, e fare i conti con un presente tutt’altro che stabile. Ad appoggiarli, in questo mesto ritorno in famiglia, la cerchia dei vecchi e storici amici d’adolescenza, veri e propri compagni di una vita. Prescindendo dall’intellettualismo di certo cinema indipendente (seppur talvolta notevole, come l’Emiliano Cribari di Tuttotorna) Alessandro e Cristiano Di Felice realizzano uno spaccato generazionale che affonda le proprie basi sui topoi usati e abusati che descrivono lo sbando del mondo giovanile. I protagonisti assumono i ruoli di portavoce e coscienza, in una società dove nemmeno le relazioni interpersonali (finanche fraterne) mantengono la forza per comunicare e venirsi incontro. E quindi, laddove Gianni intraprende l’irto mondo del lavoro rinunciando al conseguimento del “pezzo di carta”, Marco si barcamena nell’illusione di un impegno (quello universitario) labile e barcollante. Apparentemente lontani, entrambi però si ritrovano sul baratro del fallimento (economico ed esistenziale), e come loro anche gli amici e tutti i naufraghi e vagabondi del giorno d’oggi, sopraffatti da piccole realtà di provincia a loro volta annientate da un sistema nazionale assoggettante. L’unico elemento di genuina italianità che resiste sotto i colpi di una crisi economica e d’identità annichilente, è la passione calcistica che unisce sempre tutti – laureati disoccupati e lavoratori metalmeccanici – nell’unico grido indimenticabile e immortale di “Campioni del mondo!”. Gli esordienti cineasti pescaresi confezionano un prodotto che, nonostante le ingenuità di una sceneggiatura fin troppo ancorata ai cliché dell’universo dei (quasi) trentenni – anche se il prologo sorretto da Giampiero Mancini rimane formidabile –, soprattutto a livello visivo mostra buone intuizioni, dimostrando di conoscere il linguaggio cinematografico, e soprattutto, saperlo incanalare nel giusto sguardo della macchina da presa. E non è poca cosa.