Siamo nel 2035, un futuro quanto mai prossimo in cui l’avanzamento tecnologico ha portato alla diffusione capillare dei robot nella realtà di ogni giorno: gli automi sono impiegati per qualsiasi attività e sembra ormai impossibile fare a meno di loro. In questo mondo, il detective Spooner (Will Smith) è chiamato ad indagare sulla morte del genio della robotica Alfred Lanning (James Cromwell), precipitato dopo aver sfondato la parete di vetro del suo ufficio a pochi giorni dall’uscita sul mercato di una nuova serie di automi da lui sviluppati. Malgrado i robot siano programmati secondo le tre leggi della robotica di asimoviana memoria, l’insieme delle quali dovrebbe impedire che un automa possa nuocere gli umani, Spooner è talmente convinto della loro stupidità e pericolosità da imbarcarsi in una sorta di crociata personale contro di essi, in particolare contro Sonny, l’esemplare della nuova generazione cui attribuisce la responsabilità della morte di Lanning. Tali sono le premesse a partire dalle quali si dipana la trama, piuttosto lineare, di questo thriller fantascientifico, che porterà Spooner e con lui la dottoressa Calvin (Bridget Moynahan), esperta in robotica e convinta sostenitrice dell’innocenza del robot, a rivedere le rispettive – e diametralmente opposte – convinzioni. Il film si sviluppa attraverso numerose sequenze d’azione, chiarendo i reali ruoli dei vari personaggi in un susseguirsi di colpi di scena più o meno prefigurabili. Le premesse per offrire un approfondimento sia della psicologia dei personaggi che dei temi messi in scena ci sarebbero tutte: l’ispirazione tratta dai libri di Asimov, il contrasto fra il progresso e le convinzioni “tradizionaliste” del protagonista, il rapporto fra l’uomo e la macchina, il tema del “diverso”. Alcune situazioni avrebbero permesso un trattamento più maturo di diversi fra questi aspetti, soprattutto se si fosse sfruttato in modo più efficace (e funzionale alla trama) il rapporto fra Spooner e la dottoressa Calvin. Purtroppo fra i due personaggi non si crea mai una vera alchimia e la maggior parte delle tematiche che avrebbero potuto dare profondità all’opera rimane solo sullo sfondo di un film d’azione piacevole ma convenzionale. Lo stesso epilogo rimane largamente intuibile. La direzione di Alex Proyas, autore di pellicole dal ben più personale piglio creativo – Il Corvo, ma anche lo stesso Dark City – riesce ad intrattenere lo spettatore con buoni ritmi, ma senza ricorrere ed aggiungere nulla che abbia una maggiore consistenza rispetto al susseguirsi di inseguimenti, sparatorie ed effetti speciali.