Sam Raimi torna, dopo la fortunatissima parentesi marvelliana, alla sua prima e iniziatica passione cinematografica, e vi giunge attraverso una serie di produzioni altalenanti – 30 giorni di buio riscatta in parte i poco riusciti The Grudge e Boogeyman – e un’attesa protratta troppo a lungo, finalmente sfociata in un agognato ritorno alle origini. Dopo ben sedici anni Raimi riscopre le cupe e orrorifiche atmosfere della trilogia de La Casa, e il gusto profondamente divertito per lo humour nero, elemento imprescindibile di una personale e anticonformistica filmografia. Se in The Evil Dead a muovere le infernali sorti dei protagonisti era il lovecraftiano Necronomicon, in Drag me to hell dagli abissi oscuri del sovrannaturale viene evocato un demone arcano, impalpabile come l’ombra e angosciante come il nero terrore: la Lamia affliggerà il possessore di un oggetto maledetto per tre giorni, trascorsi i quali giungerà dalle profondità incandescenti della terra… Christine (Alison Lohman), una giovane di buon cuore, si occupa di finanziamenti e prestiti nella banca in cui lavora. Quando giunge la sinistra Mrs. Ganush (Lorna Raver) a chiederle l’ennesimo prolungamento sul prestito della casa, la giovane è combattuta tra il seguire la sua generosa natura e quindi cedere alla richiesta della zingara, oppure prendere una difficile decisione, dimostrando così al suo capo di essere pronta alla promozione. Infine decide di negare il suo appoggio alla supplichevole signora, la quale sentendosi profondamente umiliata dopo un ultimo supplichevole tentativo, scaglia una potentissima maledizione sulla giovane condannandola ai tormenti di un occulto demone dell’inferno. In preda ad inconfessabili e infernali visioni, decide di rivolgersi a un veggente, che leggendole la mano entra in contatto con un essere antico quanto le memorie dei morti. La Lamia tormenterà Christine fino al terzo giorno, per poi giungere a reclamare la sua anima, e, se non verrà fermato, risucchiarla tra le fiamme dell’inferno. Nel multiforme e grandguignolesco grumo di produzioni di genere, talmente impegnate a prendersi troppo sul serio da sfociare molto spesso nel grottesco o nel ridicolo, Raimi rimane autore di razza, conserva a distanza di anni il suo inconfondibile stile orrorifico, senza cedere alle tentazioni moderne degli eccessi digitali, e ricavando, da autentico artigiano, risultati sempre sorprendenti. A partire dai titoli di testa e dalle fumose ombre demoniache, Raimi imbastisce una casa degli orrori con tutti i mezzi genetici dell’horror – lo stridìo di cancelli arrugginiti, passi e cigolii, tracce demonologiche, sinistri rumori provenienti da un altrove non identificabile – e crea una vera e propria girandola del terrore, venata di tanto in tanto delle sfrenate e macabre gag care al regista. Certo resta lontano dal gusto quasi cartoonesco dei slapsticks del gulliveriano Ash (l’inimitabile Campbell ne L’armata delle tenebre), mantenendo la tensione emotiva sempre affilata (con due o tre colpi di scena davvero efficaci) e lasciandosi andare a quelle estreme (e immancabili) manifestazioni di puro divertissement solo a sprazzi. In definitiva, un gradito ritorno.