A quattro mesi di distanza dall’uscita di Uomini che odiano le donne arriva sui nostri schermi l’attesissima seconda parte della trilogia Millennium: La ragazza che giocava con il fuoco. Da annotare il cambio più significativo: alla regia, in luogo di Niels Arden Oplev subentra Daniel Alfredson (confermato anche per il terzo episodio), il quale guidandoci nei labirintici meandri del mondo creato da Stieg Larsson ne rispetta piuttosto fedelmente l’”imprinting”. La ricetta è sostanzialmente la stessa del suo fortunato predecessore: un giallo corposo, intricato ed avvincente cucito addosso alle figure portanti di Mikael Blomkvist (Michael Nyqvist) e Lisbeth Salander (Noomi Rapace). Un giovane giornalista della rivista Millennium e la fidanzata, in procinto di pubblicare un’indagine ad altissimo potenziale deflagrante sul mercato della prostituzione svedese, vengono trovati assassinati. Anche il corpo di Nils Bjurman, il vecchio tutore-aguzzino di Lisbeth, viene rinvenuto privo di vita: sull’arma del delitto dei tre omicidi vengono rinvenute le impronte di Lisbeth sulle cui tracce si mette immediatamente la polizia. La giovane hacker si getta alla ricerca del vero colpevole per cercare di scagionarsi e contemporaneamente, anche Blomkvist convinto dell’innocenza della ragazza, inizia un’indagine parallela. Seguendo ognuno una propria strada, i due dovranno affrontare ostacoli più grandi di loro – un segreto di stato e un colossale ex-pugile immune al dolore fisico – che incombono minacciosi sulle loro teste, pronti se necessario a schiacciarle. Un intreccio decisamente più complesso del precedente e alcuni punti non immediatamente comprensibili per coloro che hanno saltato la lettura della controparte cartacea: la seconda vicenda della trilogia si presenta accattivante e ricca di risvolti interessanti, rivelazioni che si susseguono incalzanti con un ritmo a dir poco vertiginoso, in particolare nella seconda parte del film. Concentrare settecentocinquantaquattro pagine di libro in poco più di ore ha un suo costo, indubbiamente. Ne risulta un lungometraggio sicuramente più globalizzato, privo di quelle ambientazioni e quei paesaggi che avevano reso pienamente “svedese” il predecessore: lo spazio riservato all’azione è decisamente superiore, anche perché qui manca il continuo confronto tra le personalità e i sentimenti di Lisbeth e Mikael. I due protagonisti, infatti, agiscono questa volta separatamente senza praticamente venire mai in contatto e arrivano alla stessa conclusione seguendo due strade senza punti in comune. Più che mai fattore trainante è la figura di Lisbeth Salander, della quale verrà svelato più in profondità un passato solo accennato nel film di Oplev: una (super?) eroina vendicativa e invincibile, una vittima della società abbandonata a se stessa, sempre ottimamente interpretata dalla Rapace. Blomkvist rimane più dietro le quinte, una sorta di ala protettrice che lascia a Lisbeth il palcoscenico principale, aiutandola come può con la sua verve investigativa e la sua incrollabile fiducia nella giovane amica. Un pizzico inferiore al precedente – forse proprio in virtù dell’enorme mole di eventi da raccontare – il film soddisferà comunque i palati dei fan di Larsson come pure gli spettatori “profani”; e per chi non dovesse ancora saziarsi, l’appuntamento è fissato per la prossima primavera con La regina dei castelli di carta.