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Il cattivo tenente - Ultima chiamata a New Orleans

27/09/2009 11:00

Giacomo Ferigioni

Recensione Film,

Il cattivo tenente - Ultima chiamata a New Orleans

Tante polemiche che, a conti fatti, possono venire liquidate con l'espressione "tanto rumore per nulla"...

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Tante polemiche che, a conti fatti, possono venire liquidate con l'espressione "tanto rumore per nulla". Già era successo per il deludente Videocracy di Erik Gandini; con Il cattivo tenente - Ultima chiamata a New Orleans si dimostra un'altra volta l'inconsistenza effettiva dei film che, alla 66esima di Venezia, riescono a far discutere di sé ancor prima della proiezione. Il film infatti è riuscito, volente o nolente, a scatenare dibattiti e botta e risposta a distanza che hanno animato i primi giorni di festival: la causa della contesa, chiaramente, la prima parte del titolo del film, col richiamo - impossibile pensare ad una casualità - ad uno degli episodi più felici dell'intera filmografia di Abel Ferrara. E se da una parte il regista nuovaiorchese (con evidenti origini italiane) mandava, scocciato dalla questione, tutti a quel paese, un flemmatico Werner Herzog rispondeva con candore di non aver nemmeno visto il film "originale".


C'è da credergli: l'unico elemento che potrebbe legare i due film, infatti, può essere rappresentato dai due protagonisti, Harvey Keitel e Nicolas Cage, cattivi tenenti, dalla vita squallida, tutta eccessi e abusi. Un'interpretazione che rimane in ogni caso forzosa, visto che la statura morale dei due personaggi verrà modellata dagli eventi secondo modalità molto diverse: e se per il Tenente di Ferrara sarà l'incarico in sé (l'indagine sullo stupro di una suora) a fare da perno per il suo iter morale, a segnare Terence McDonagh saranno soprattutto gli affetti, la famiglia, ma in particolar modo l'affettuosa prostituta Frankie (Eva Mendes).


Mentre per Ferrara il genere poliziesco era la cornice entro la quale creare il proprio freddo, delirante e personalissimo viaggio nell'incubo e nelle pieghe della psiche umana, Herzog si concentra proprio su detta cornice, (auto)limitandosi più che altro nei confini. Limitato da una sceneggiatura (di William M. Finkelstein) tanto rigida quanto approssimativa, il regista teutonico si limita ad una regia efficace e impersonale, permettendosi qualche guizzo nella messa in scena delle visioni lisergiche del protagonista, che gli permettono di richiamare - non senza ironia - un mondo "altro" di rettili e anime danzanti. Ma il talento delle immagini di Herzog non riesce comunque a significare quello che pare essere un film sbagliato; che affastella personaggi come figurine – come la già citata presenza salvifica della Mendes, o il collega Stevie Pruit (Val Kilmer) –, che non riesce a sfruttare la location della New Orleans post-Katrina se non per gli aspetti più banali, che nemmeno riesce a creare quell'intrigo e quella tensione essenziale per il genere. Ferrara può stare tranquillo.


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