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Donne senza uomini

30/09/2009 11:00

Silvia Badon

Recensione Film,

Donne senza uomini

Per il suo esordio alla regia, la fotografa e videoartista Shirin Neshat ha scelto come sfondo l’Iran del 1953...

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Per il suo esordio alla regia, la fotografa e videoartista Shirin Neshat ha scelto come sfondo l’Iran del 1953. Tratto dall’omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur, il suo è un film tutto al femminile, dove il destino di quattro donne dell’epoca diventa un modo per parlare di tutte le donne iraniane. Durante il colpo di stato dello shah Reza Palhavi, sostenuto dagli americani, si incrociano le vite di Zarin (Orsolya Tóth), una prostituta, Fakhri (Arita Shahrzad), moglie di un ministro, Munis (Shabnam Toloui), una giovane rivoluzionaria e la sua amica Faezeh (Pegah Ferydoni). Fakhri si separa dal marito e va a vivere fuori Teheran, in un casolare, con un bellissimo giardino che confina col bosco; nella grande casa vive sola, ma le sue porte sono sempre aperte soprattutto per dare ricovero a donne in difficoltà. Lì arrivano Zarin, molto malata, e Faezeh dopo essere stata violentata da due sconosciuti; Munis rimane in città durante le proteste e, dopo essersi finta morta al fratello, entra a far parte del movimento rivoluzionario contrario allo shah.


La Neshat non sembra preoccupata di raccontare precisamente le storie delle sue protagoniste. Al centro del film c’è la manifestazione della femminilità in varie forme: quella altera e distinta di Fakhri, quella timida di Faezeh, quella lacerata di Zarin e l’esuberante di Munis. La femminilità si lega al velo, che diventa muro metaforico ed elemento coreografico, con cui la regista “gioca” visivamente nelle sue inquadrature. Il velo delle donne della Neshat, quando compare, è nero e si staglia come uno schiaffo di contrasto al bianco riflettente delle vie di Teheran, al giallo delle strade di campagna. La regista-fotografa, che ha dovuto girare il film a Casablanca, punta soprattutto all’occhio dello spettatore, immergendo la bellezza delle sue attrici nella natura, a contatto con gli elementi essenziali di acqua, terra, erba, fiori, polvere. Il film è anche ricco di momenti poetici e sospesi, dove il dialogo lascia spazio alla voce fuori campo che esprime i pensieri delle protagoniste.


La Neshat sceglie per il proprio cast attrici di diversa provenienza e formazione: Orsolya Tóth, ungherese, attrice prediletta di Kornél Mundruczó, aveva già lavorato con la regista per il video Zarin; Shabnam Toloui, iraniana che vive a Parigi, ha lavorato con Marzieh Makhmalbaf; Arita Shahrzad compare in un video della regista e Pegah Ferydoni, nata a Berlino, è attrice soprattutto di produzioni televisive. Dando un grande senso metaforico alle vicende raccontate, i fatti degli anni ’50 sono un’occasione per parlare dell’Iran di oggi, dove forse le lotte non sono così cambiate. Sicuramente la partecipazione della Neshat, come degli altri registi iraniani, alla 66^ edizione del Festival di Venezia è stata un’occasione per ricordare alla scena internazionale quello che sta vivendo il popolo del suo paese dopo le ultime elezioni.


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