
Charlie trascorre la sua vita nel quartiere di Little Italy a New York. Tra mille problemi (uno zio mafioso, l’ambizione di diventare qualcuno, la salvaguardia del suo mattocchio amico Johnny Boy e la difficile relazione con sua cugina ) si interroga sui dilemmi dell’esistenza e i misteri dell’umana sofferenza. Scorsese descrive, con ammirevole puntiglio da antropologo, la tormentata vita di un quartiere affollato da personaggi nevrotici, ambiziosi, estremi. L’asse portante della narrazione è affidato a Charlie (Harvey Keitel), piccolo gangster eternamente in conflitto con la propria coscienza umana e religiosa, smanioso di scoprire una maniera con la quale pagare i suoi “debiti”. È un film ruvido, affidato molto alle improvvisazioni degli interpreti e alla loro poliedricità. Indaga sull’esistenza di Dio, alternando spensierati momenti di umorismo a fulminee sequenze di violenza (memorabile la rissa in un biliardo) degne del futuro Scorsese. Più che la storia contano i personaggi, i loro rapporti, le invidie, i soprusi, la violenza, il denaro. E la morte costantemente dietro l’angolo. Non ha la pretesa di dimostrare, mostra soltanto. Anche la narrazione non ha un preciso processo evolutivo, è solamente affidata ad un corso di eventi che rientrano nella quotidianità di un luogo costantemente in movimento, quasi fisico. L’atmosfera è mirabilmente resa dalla sgranata fotografia di Kent Wakeford e da un montaggio (Sid Levin) ora sperimentale, ora classico. Grande squadra di attori, le facce giuste per quello che merita un posto d’onore nella classifica dei gangster movie scorsesiani.