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Il mio vicino Totoro

07/11/2009 12:00

Davide Tecce

Recensione Film,

Il mio vicino Totoro

Totoro arriva nelle sale italiane dopo ben ventuno anni dall’uscita dell’edizione originale giapponese

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Nel Giappone degli anni ’50, le due sorelline Mei e Satsuki (di quattro e undici anni) si trasferiscono insieme al padre a Matsu no Gô, villaggio di campagna nell’hinterland di Tokyo, per stare più vicine alla mamma, ricoverata in ospedale. La casa nella quale si stabiliscono, rimasta abbandonata per lungo tempo, sorge nei pressi di un antico e maestoso bosco al cui interno vive Totoro, buffo e generoso spirito della foresta che insieme agli altri Kami suoi amici schiuderà loro le porte di una magica avventura, dove sogno, spiritualità e natura convivono in perfetta armonia.


Giunto nelle sale italiane dopo ben ventuno anni dall’uscita dell’edizione originale giapponese (Tonari no Totoro, 1988), Il mio vicino Totoro è finalmente pronto a conquistare anche il pubblico nostrano, per il quale, al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati, era rimasto completamente sconosciuto. Dinnanzi ad un ritardo tanto clamoroso, è più che legittimo domandarsi se presentare il film all’attenzione dello spettatore odierno possa ancora avere una sua ragion d’essere, nel 2009. La risposta, fortunatamente, non può che risultare positiva: lo scorrere inesorabile degli anni nulla ha potuto intaccare del valore e del fascino stilistico e tematico della pellicola in questione, primo grande successo in patria di Miyazaki, nonché contributo determinante alla consacrazione del suo nome, che sarebbe presto assurto, anche a livello internazionale, quale emblema per eccellenza dell’animazione giapponese. Un’opera di qualità rimane tale indipendentemente dal tempo trascorso: non ci deve dunque stupire se Il mio vicino Totoro appare oggi più vivo e palpitante che mai.


Tra gli innumerevoli elementi di valore del film, spicca innanzitutto il fatto che esso riesce a distaccarsi nettamente dagli stilemi tipici dei cartoon contemporanei, trovando un sentiero espressivo che risulta quanto mai valido ed attuale: da questo punto di vista, il primo dato che inevitabilmente salta agli occhi del pubblico è costituito dal ricorso a disegni tradizionali, superbi sia nel tratto che nell’animazione, anziché all’ormai consolidata tecnica della computer grafica (la quale d’altronde, all’epoca, non poteva costituire quell’ovvio punto di riferimento quale sarebbe divenuto solo in seguito, e che in ogni caso lo Studio Ghibli continua consapevolmente ancor oggi a non voler impiegare nelle sue produzioni). In realtà, si tratta solo dell’aspetto più evidente di tutta una serie di particolari che meritano di essere sottolineati, al fine di comprendere il profilo di feconda diversità che contraddistingue la pellicola in questione. In controtendenza ai binari seguiti dai “grandi marchi” più recenti (Shrek, L’Era Glaciale e Madagascar), i quali spesso si rivolgono ad un pubblico quantomeno adolescenziale, se non esplicitamente adulto (in ogni caso abbastanza maturo e smaliziato da poter cogliere quella mole impressionante di battute, critiche mascherate da intrattenimento, doppi sensi, sketch e citazioni in essi incluse) è bello scoprire, invece, come il lavoro di Miyazaki segua piuttosto un’altra strada, resa paradossalmente originale proprio dal suo essere dedicata principalmente all’infanzia e ai bambini. Sono questi ultimi, infatti, i veri protagonisti del film, nonché, al tempo stesso, i destinatari e i depositari dei valori attorno ai quali il regista edifica il suo messaggio di rispetto e dedizione nei confronti della Natura e della vita. Mei e Satsuki, in quanto fanciulle, hanno la capacità di gettare uno sguardo di innocente stupore verso il carattere prodigioso, sacrale, dell’ambiente che accoglie l’essere umano. Nella nuova dimensione della casa in cui vanno ad abitare, e dell’imponente bosco che le sorge vicino, esse scoprono un mondo magico e sorprendente, il quale restituisce ai loro occhi quella fantasia e quella creatività attraverso cui l’animo di un bambino riesce a percepire le cose che ha dinnanzi, e a notare i piccoli grandi fenomeni che appaiono tutt’intorno a lui, anche se apparentemente senza senso. Ed è proprio questo uno dei maggiori punti di forza dell’opera di Miyazaki: ossia, il rigetto di uno schema narrativo in cui tutto ciò che accade deve necessariamente trovare una sua giustificazione logica e plausibile. Al contrario, quello di Totoro è un mondo che non deve e non vuole spiegare né rendere intellegibile alcunché, in quanto sono ora il fantastico ed il sogno a recuperare un ruolo di centrale importanza, e a disegnare un intero universo fatto di incantevole meraviglia, dove perdersi e, al tempo stesso, ritrovare la parte più pura e spensierata di se stessi. Non a caso, le principali figure adulte (il papà delle bambine, la mamma, la nonnina) assecondano e, anzi, incentivano, la fantasia delle due giovani protagoniste.


In questo modo, allontanandosi dalla caleidoscopica frenesia delle produzioni odierne del genere, disseminate di azione, ilarità, incontri e scontri che si susseguono ad un ritmo forsennato, Il mio vicino Totoro lascia invece prevalere il momento della scoperta, del prodigio, della poesia; una poesia delicata e seducente, alla portata di tutti, dalla quale scaturisce il fascino atipico e vibrante della pellicola. Che non è solo una scontata parabola ambientalista, ma anche, e soprattutto, un riflesso coerente della spiritualità scintoista giapponese, capace però al tempo stesso di risuonare anche come un evidente appello alla riscoperta del candore e dell’incanto dell’infanzia (troppo spesso trascurati da un certo tipo di cultura occidentale e occidentalizzata) quale chiave di volta per impostare un rapporto nuovo col mondo circostante, più fecondo e genuino. Fortunatamente, tali caratteristiche dell’opera e del suo notevole significato vengono adeguatamente valorizzate da un doppiaggio in italiano, che non manca di alcune imprecisioni (clamorosa, ad esempio, la traduzione del termine Kami con “fantasma”, anziché con “spirito”!) ma che, complessivamente, si dimostra all’altezza della situazione.


Impossibile, d’altronde, non dedicare almeno un breve encomio alla simpatia dell’irresistibile Totoro e dei suoi amici, magistralmente caratterizzati da Miyazaki in piena adesione allo stile iconografico kawaii; ai buffi titoli di testa e di coda, sottolineati da melodie capaci di imprimersi con imbarazzante naturalezza nella memoria dello spettatore; alla splendida colonna sonora di Joe Hisaishi, che accompagna la durata dell’intero film (così come avverrà anche per molte altre opere successive dello Studio Ghibli) con una serie di brani orchestrali di eccellente fattura, perfetto connubio tra sonorità classiche ed elettroniche; nonché, infine, all’impressionante forza visionaria che emerge dirompente e onirica da alcune sequenze memorabili, quali quelle relative alla comparsa del Gattobus e al rito notturno di fecondazione del campo. Il mio vicino Totoro resta dunque un’opera che, con tutto il suo carico di magia introspettiva, merita l’attenzione dello spettatore al di là di ogni possibile scusante di natura anagrafica. Una perla rara da riscoprire e coltivare con passione, oggi più imprescindibile di prima.


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