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Tony Manero

26/11/2009 11:00

Marco D'Amato

Recensione Film,

Tony Manero

Sporco, disturbante, agghiacciante, ossessivo, delirante...

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Sporco, disturbante, agghiacciante, ossessivo, delirante. Assolutamente imperdibile. Pablo Larrain, al suo secondo lungometraggio, cuce attorno all’incredibile Alfredo Castro (anche sceneggiatore) un film crudele e a tratti increscioso, assolutamente non adatto a tutti, ma allo stesso tempo altamente significativo e di indiscutibile valore.


1978: a Santiago, capitale di un Cile sottoposto alla pesantissima dittatura di Pinochet, mentre la polizia politica impazza per le strade riducendo al silenzio qualsiasi tipo di opposizione con metodi criminali, Raul Peralta (Alfredo Castro), cinquantaduenne ballerino fallito, insegue il suo sogno di diventare in tutto e per tutto simile al suo idolo Tony Manero, il personaggio interpretato da John Travolta, protagonista del famoso La febbre del sabato sera, che proprio in quel periodo spopola nei cinema di tutto il mondo.


L’ossessione è il binario su cui corre tutta la pellicola. In primis quella parossistica che Raul nutre per Tony Manero: vede il film decine di volte, imparando a memoria tutti i dialoghi in inglese, arrivando a contare persino i bottoni del suo abito di scena. E se all’inizio la sua figura può sembrare quella di un alieno stralunato, completamente estraniatosi dal mondo che lo circonda pur di raggiungere il suo obiettivo, Raul si mostra presto per quello che è, un uomo disgustoso, privo di scrupoli e del benché minimo barlume di umanità, capace di ogni tipo di bassezza per raggiungere il suo obiettivo. La sua mania risucchia ogni singolo pensiero, ogni sentimento, ogni fluido vitale. Raul non è nulla di più di un robot, un automa: non parla praticamente mai, è violento, non ha amici né famiglia, il suo unico rapporto è con i membri del suo scalcinato corpo di ballo; instaura un osceno triangolo meramente sessuale con due ballerine, madre e figlia, che se lo contendono, ma la sua impotenza gli impedisce qualsiasi rapporto. Pronto a uccidere a sangue freddo per ottenere qualsiasi cosa possa aiutarlo nel costruire il suo spettacolo, Raul Peralta è un personaggio shockante come pochi altri visti sul grande schermo.


E l’ossessione è anche alimentata visivamente dal regista che non toglie praticamente mai l’obiettivo da Raul, seguendolo ovunque con inquadrature sporche e frenetiche. Intorno a lui c’è solo sfacelo, decadenza e desolazione: nel retro del disastrato locale dove si esibisce, vivono la proprietaria e i suoi disperati ballerini, il giovane attivista politico Goyo, e le ballerine Cony e Pauli, madre e figlia. Larrain esibisce senza filtri il rapporto incestuoso tra le due e Raul, lasciandoci da soli con il nostro disgusto, accentuato dallo squallore dei corpi esibiti dalle donne, corpi sfatti, cadenti, senza la minima sensualità. Sullo sfondo, il Cile della dittatura, un paese chiuso in se stesso, spaventato, tetro e quasi deserto, vissuto con l’incubo continuo delle retate della polizia e del coprifuoco, della violenza e della fame. Un paese che non ha più morale né valori, che rinnega la propria storia alla ricerca di sogni impossibili ed evanescenti che arrivano da lontano: un paese di cui Raul Peralta è la metafora più spaventosa.


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