Nuovo adattamento cinematografico del celeberrimo “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde, Dorian Gray è un film che stravolge i modi e le forme del romanzo per assumere i tratti di un thriller–horror dalle atmosfere gotiche. La storia è una delle più note della letteratura inglese: Dorian Gray, giovane e bel rampollo dell’alta società inglese, viene ritratto in un quadro dall’amico pittore Hallward. Il quadro è bellissimo e dotato di una singolare peculiarità: assumendo su di sé i segni della vecchiaia e degli eccessi cui si abbandona Dorian, mantiene quest’ultimo giovane e bello. Ma il quadro rappresenta anche uno specchio dell’anima del ragazzo e della corruzione di cui è oggetto, peggiorando ad ogni nefandezza commessa dal giovane. La pellicola diretta da Oliver Parker, regista che di Wilde aveva già fatto esperienza con la trasposizione della commedia The importance of being Earnest, si appoggia sulle interpretazioni di Ben Barnes, Colin Firth, Ben Chaplin e Rebecca Hall per costruire un intreccio faticoso e incongruente, che non rende giustizia all’opera dalla quale è tratta. Procedendo con ordine: l’ambientazione. La Londra del XIX secolo era un contesto potenzialmente molto affascinante ma la realizzazione delle scenografie è altalenante: si passa da ambienti da quadro preraffaellita a goticismi alla Sweeny Todd, con delle ricostruzioni della città che in diversi frangenti risultano troppo evidentemente finte. Allo stesso modo carenti sono la sceneggiatura e il montaggio: paradossale la prima situazione, avendo a disposizione un testo così noto, grottesca la seconda, con stacchi incomprensibili, alcuni manieristici accostamenti di inquadrature e la sensazione complessiva di un lavoro curato male, che pecca pesantemente in fluidità dove ne avrebbe bisogno ed eccede in prolissità dove dovrebbe sintetizzare. La scelta dei dialoghi è ridondante: quattro quinti delle battute sono aforismi, ma se nel libro questo poteva avere un senso, tradotto in film il lampo di genio dell’autore viene svilito in un continuo scambio di frasi fatte, fino a quando non giunge inesorabile la noia. La lascivia e la perdizione in cui precipita l’anima di Dorian è trasposta sullo schermo in un continuo susseguirsi di scene orgiastiche, festini e avventure, la cui resa è però di basso livello anche a causa di punti di ripresa poco comprensibili. Neanche la presenza di un attore affermato come Colin Firth o quella di un giovane lanciato come Barnes è d’aiuto: il primo, chiamato ad interpretare il ruolo del mentore carismatico Lord Henry, manca del mordente di cui necessiterebbe; il secondo passa dall’inespressività più totale all’eccesso d’emozione, senza mai recuperare il proprio baricentro. Le influenze horror che si è scelto di inserire nella seconda metà del film rovinano l’unica intuizione interessante che si era concretizzata sullo schermo: la corruzione del quadro nelle prime manifestazioni era stata infatti resa efficacemente, dando l’idea dello specchio dell’anima di Dorian. In un secondo momento però il quadro diventa una sorta di oggetto di possessione demoniaca, snaturando completamente il senso del capolavoro letterario dell’ ‘800.