Un celebre botanico inglese parte alla volta del Tibet alla ricerca della mariphasa lupina lumina, raro fiore che possiede l’insolita caratteristica di sbocciare solo se esposto alla luce lunare. Il morso di un licantropo durante le ricerche lo trasformerà in un lupo mannaro. Conosciuta anche con il titolo de Il segreto del Tibet, la pellicola diretta da Stuart Walker rappresenta il classico esempio di film giusto uscito al momento sbagliato. La Universal lo distribuisce nelle sale nel 1935, stritolandolo involontariamente tra il crescente successo del Dracula di Tod Browing (1931) e quello ottenuto da la Mummia di Karl Freund (1934). Un errore di calcolo tamponato nel 1941 dall’uscita de L’Uomo Lupo di George Waggner, ma pagato tutt’ora a caro prezzo in termini di considerazione da Il Lupo Mannaro di Londra: tanto che ad oggi risulta estremamente complesso documentarsi su un film che, date alla mano, rappresenta in assoluto la prima produzione cinematografica legata al tema della licantropia. Davvero un peccato, perché questo piccolo gioiellino horror di qualità e potenzialità per essere ricordato ne possiede eccome. A partire dalle differenze che lo distinguono da quello che sei anni dopo verrà considerato come il prototipo assoluto del genere. Ciò che maggiormente separa Il Lupo Mannaro di Londra da L’Uomo Lupo è la focalizzazione e la giustificazione del contagio. Se nel film di Waggner il “morbo” della licantropia germogliava nascosto, tra leggende e folclori, all’interno di un sonnolento paesino di provincia, Stuart Walker lo lascia provenire, secondo tradizione letteraria, dalle distanze geografiche meglio immaginabili (in questo caso il Tibet). L’obiettivo metaforico risulta chiaro: sottolineare, attraverso la figura dell’essere a metà tra lupo e uomo, l’incapacità umana nel contrastare la dirompente forza della natura. Che sia essa “solita” (la bella mostra di piante esotiche e carnivore) o insolita (il licantropo). Il segreto del Tibet segue, nella filmografia del suo autore, alla morale antimilitarista de L’Aquila e il Falco (1933) e alle atmosfere da dramma dickensiano de Il Forzato (1934). Tematicamente, quindi, Walker non possiede il pedigree del regista horror, ma riesce ugualmente a confezionare un prodotto per certi aspetti addirittura sorprendente. La staticità della regia (pachidermica e teatrale come imponevano i canoni tecnici dell’epoca) subisce improvvise e decisive accelerazioni in fase di montaggio (indimenticabile, a tal proposito, la modernissima sequenza relativa alle telefonate “a incastro” che fa da preludio al risolversi delle indagini), mentre a rapire definitivamente l’occhio dello spettatore provvede il convincente prestigio di luci e dissolvenze che svela, spesso senza stacchi di inquadrature, la mutazione del dottor Glendon in lupo mannaro. Artifici e prestigi del cinema di una volta, stratagemmi che riportano alla mente l’illusionismo di Mario Bava, rivelando la bellezza nemmeno tanto nascosta di un film ingiustamente dimenticato.