Forte del successo ottenuto da Frankenstein e L’uomo Lupo la Universal opta per la massima monetizzazione del suo genere di riconoscimento (l’horror) distribuendo nelle sale lo scontro tra i due titani del brivido. Il doppio sequel, al fine di sbancare il botteghino, viene progettato a tavolino e pianificato intorno agli imperativi di continuità e riconoscibilità. A George Waggner il compito di supervisionare e produrre l’operazione, mentre Roy William Neill ne rileva il posto in cabina di regia ad appena due anni di distanza dall’exploit di The Wolf Man. Come sceneggiatore viene confermato Curt Siodmak; Lon Chaney Junior e Maria Ouspenskaya, dal canto loro, tornano rispettivamente a vestire i panni del licantropo Lawrence/Larry Talbot e della zingara Maleva. Bela Lugosi, ormai al crepuscolo della sua carriera, accetta di indossare la maschera del mostro. La stessa rifiutata a vantaggio di Boris Karloff nel cult diretto da James Whale. La traduzione italiana lascerebbe pensare ad un mitologico conflitto moderno, ma con il critico senno di poi sarebbe più corretto parlare di incontro tra due icone della paura. Solo aggrappandosi a quel significativo “meets” del titolo originale, infatti, si può comprendere a pieno l’essenza di una pellicola che di terrificante possiede ben poco, se non la drammatica parabola di due esseri emarginati e temuti, in quanto diversi e potenzialmente pericolosi. Tanto Frankenstein quanto L’uomo Lupo altro non sono che outcast, mostri nell’accezione maggiormente dispregiativa del termine: minacciati e braccati da una normalità “umana” che li considera diversi. L’intera durata del film è oppressa da una plumbea cappa di morte (la cappella della famiglia Talbot o il glaciale sepolcro sotto le rovine del castello Frankenstein) e da strazianti prese di coscienza relative alla condizione di forzata immortalità. In questo contesto germoglia spontaneo il sentimento di amicizia tra due creature costrette a condurre un’esistenza indesiderata, private della loro identità ed escluse dal nucleo sociale (significativo, a tal proposito, il malinconico e incompreso ingresso di Frankenstein alla festa della vendemmia). Una virata profondamente psicologica rispetto ai canoni del genere, figlia del sapiente script di Siodmak, abile a costruire il sentimento d’insolita amicizia all’interno della disperata condizione di vita e a porre fine a quest’ultimo per mano dell’ennesima e presuntuosa mente umana. A metterli l’uno contro l’altro, provvederà di fatto il tracotante delirio medico del Dottor Frank Mannering (praticamente un diminutivo del collega Frankenstein), condannando le due vittime ad autoeliminarsi appena prima dell’amaro e solo apparentemente catartico finale. Il vecchio castello degli orrori scientifici affoga nella piena della diga, trascinando con sé i corpi dei due mostri. La bella è salva. Ma chi è il cattivo?