C’era grande attesa per il nuovo film di Peter Jackson, Amabili resti, che traduce sul grande schermo l’omonimo romanzo di Alice Sebold, sorprendente successo editoriale. Le premesse erano ottime: una storia avvincente e di sicura presa emotiva, un cast di tutto rispetto, la splendida colonna sonora di Brian Eno. Tuttavia, tante erano anche le perplessità , dovute soprattutto alla difficile resa cinematografica dell’opera della Sebold. Il risultato finale è sicuramente tutt’altro che disprezzabile, ma parecchio lontano dal capolavoro che si poteva ottenere, e auspicare. La tranquilla vita della famiglia Salmon, in un paesino della Pennsylvania negli anni ’70, viene orrendamente straziata dal brutale omicidio della quattordicenne figlia maggiore, Susie (Saoirse Ronan). Il resto della famiglia, sconvolta, reagisce a modo suo: il padre (Mark Wahlberg) fa della ricerca dell’assassino una vera e propria ossessione; la madre (Rachel Weisz) si allontana progressivamente da un marito che non è più in grado di donarle affetto e calore; la figlia minore si sforza di fare da collante in una situazione disperata. L’anima di Susie, finita in una sorta di meraviglioso limbo, in pericoloso equilibrio tra inferno e paradiso, è combattuta tra la voglia di vendicarsi del suo assassino, il signor Harvey, e quella di aiutare la sua famiglia a rimettere insieme i cocci di vite andate in pezzi per riuscire a ripartire, facendo della morte della giovane un punto per una nuova partenza. La colonna portante del film è senza dubbio la prestazione degli attori, di altissimo livello, impreziosita da uno strepitoso Stanley Tucci: il suo Harvey, isolato tra le mura della propria casa, gelido, dallo sguardo fisso, con il suo eloquio maniacale ricco di interiezioni, è un piccolo capolavoro. Bella e sofferta anche la prova del resto del cast, con una nota per la giovanissima Ronan che rende dolce ed etereo il personaggio di Susie. Sempre strepitosa Susan Sarandon, che interpreta il ruolo di nonna Lynn, personaggio che si abbatte come un ciclone tra i Salmon ormai alla deriva: un personaggio di indubbia carica positiva, la cui eccessiva verve comica forse stona un po’ nel clima generale del film. Jackson, dopo la morte di Susie mostra due mondi opposti: quello reale, tetro, dove si muove la famiglia Salmon ridotta alla disperazione e il meraviglioso limbo dove continua l’esistenza di Susie, un mondo perfetto, felice, ricco di colori e paesaggi mozzafiato. Visivamente spettacolare la rappresentazione che ne dà il regista neozelandese: molto bello il mare che circonda il gazebo al centro dei ricordi di Susie, da bocca aperta le immense navi in bottiglia che si infrangono sugli scogli. In tutta questa grandeur cinematografica il kitch è però sempre dietro l’angolo e in un paio di occasioni fa decisamente capolino. Ciò che manca al film per fare il salto di qualità è una certa mancanza di pathos, una fretta che contraddistingue momenti che dovrebbero essere di notevole impatto emotivo, come le manifestazioni della presenza di Susie a suo padre e al fratellino, o la tragedia interiore della madre che passa decisamente in secondo piano rispetto al dolore del padre o alla certosina costruzione del personaggio del signor Harvey. Davvero magistrale a riguardo e di hitchckokiana memoria la scena del ritrovamento in casa di Harvey del suo diario segreto, costruita solo tramite una serie di rumori impercettibili, ma che suonano come deflagrazioni all’orecchio, di un uomo abituato alla più totale solitudine. Finale dai due volti: decisamente coraggioso e sorprendente da una parte, eccessivamente zuccheroso e fanciullesco dall’altra; da censura l’augurio finale rivolto da Susie agli spettatori che scatenerà gli scongiuri delle platee di mezzo mondo.