Durante uno scavo presso un vecchio ospedale di Londra, Anna, una giovane e promettente archeologa, trova alcune spore di peste medievale risalenti con tutta probabilità al 1666, anno della terribile pandemia che colpì duramente la capitale inglese. Contro tutto e tutti, si batterà per decifrare il segreto che secondo lei nasconde questa incredibile scoperta: senza pensarci troppo, decide di imbattersi di notte nel vecchio edificio, con la speranza di trovare le risposte ai suoi quesiti e risolvere in fretta il mistero, prima che l'ospedale venga definitivamente abbattuto. Ciò che troverà , tuttavia, travalicherà qualsiasi supposizione che, prima di allora, avesse anche solo immaginato. Promosso come un parente lontano di Hellraiser, La Mummia e Alone in the dark, il film diretto da Curtis Radclyffe (qui al suo secondo lungometraggio dopo Sweet Angel Mine, mai apparso in Italia) riesce nell'impresa più ardua: afferrare il peggio del trittico appena accennato senza aggiungere né togliere nulla. I messaggi esoterici vengono vanificati una volta carpito il meccanismo alla base del progetto: confondere, mascherare; se possibile, sfuggire alla chiarezza. Facendo leva su interazioni di gruppo alla Saw e spruzzando elementi splatter a più non posso – realizzati tutto sommato con mezzi modesti – La casa della peste pare raccontare un soggetto abbozzato invece che sviluppare una storia completa. Quei pochi dialoghi incollati con semplicioneria non sono in grado di chiarire ciò che il montaggio, fastidiosamente scomposto e spiritato, arranca a spiegare. Una confusione dalla quale è difficile divincolarsi, soprattutto quando ci si scontra con l'oscurità degli ambienti, dominati da una fotografia blu cobalto che toglie, anziché aggiungere, all'atmosfera. Trascurabili le interpretazioni degli attori, compresa quella della protagonista Gina Philips, apparsa tra il 1999 e il 2000 nella serie televisiva Ally McBeal e nel 2001 nell'horror Jeepers Creepers - Il canto del diavolo, accanto a Justin Long e Jonathan Breck. Un b-movie da affogare senza troppo rammarico nell'immenso mare di film fotocopia, poiché impacciato nel proporre (e imporre) uno stile proprio. Qui, invero, a mancare non sono tanto le tracce di stile - qualche buona idea comunque non manca - quanto un intreccio teso ed emozionante, e soprattutto, la presenza di un vero talento creativo dietro la macchina da presa.