Ovvero Jean-Claude Van Damme incastrato in un giorno di ordinaria follia. Follia del cinema e della vita, intrecciate in un’unica, amara, beffarda infusione (e illusione): è così che l’incontrastata stella del genere action, tra gli anni ottanta e novanta a cavallo di quell’onda ispida e spumosa di fama e successo, percorre la sua parabola discendente anticipata dagli eccessi, minata dalla droga, e assuefatta da matrimoni falliti e crepe familiari. Niente di nuovo, soprattutto quando si osservano i gelidi congegni e le inesorabili catene di montaggio della macchina hollywoodiana. In questa caotica e ingrata babilonia, le leggi, al pari di una famelica corte di (in)giustizia, processano i personaggi da loro stesse creati e li stipano nelle celle dello sfavillante e zoologico show-biz, oltre le cui sbarre assiste e giudica il mondo intero. Il giovane e talentuoso regista franco-algerino Mabrouk El Mechri raccoglie l’imbolsito attore belga dalle minacce di un oblio massmediatico incipiente, e lo riporta sotto le luci sempre accattivanti, sempre promettenti, della ribalta. Van Damme, la grande star del cinema d’azione, torna al paese di nascita, nel bel mezzo di un divorzio, di un procedimento giudiziario per l’affidamento della figlia e pressato dalle onerose parcelle di famelici avvocati. Entrato in uno sportello postale, dopo essersi esibito nelle rituali foto coi fan, degli spari provenienti proprio dall’interno dell’ufficio scuotono la pacifica quiete degli astanti. Tra ostaggi e umiliazioni, blocchi di polizia che circondano l’isolato convinti che al centro della malefatta ci sia proprio l’attore osannato dal popolo belga, Van Damme vivrà un’esperienza al di là della finzione cinematografica e dei rischi affrontati ed elusi sempre da eroe nei suoi innumerevoli film. Ciò che si chiedono tutti si legge negli occhi dei curiosi in cerca di scoop: è possibile che la star nazionale stia rapinando in pieno giorno uno sportello postale? Il risveglio da una sbornia di sfavillanti clamori, di abbacinanti pillole di popolarità e lisergici contraccolpi umorali, si vela dello stesso disincanto che piove sulle rughe delle primedonne del vaudeville o delle giostre circensi, quando una smorfia interiore equivale al dimenticatoio di una folla distratta. In quegli sguardi affranti e delusi di fronte ad uno specchio che rimanda un’immagine non più eburnea, ma avvilita e avvizzita dal tempo, si raccoglie l’anima di JCVD: l’attore belga che si riflette nello speculare occhio della macchina da presa, questa cruda e nuda consapevolezza di sé investita dalle luci di uno spettacolo sempre in onda, è il punto d’arrivo e di partenza della pellicola di El Mechri. E se la fisicità di Van Damme, le funamboliche abilità (curate con anni di sapiente miscelazione di arti marziali, danza e body-building) nelle sue ormai celebri evoluzioni, sono divenute col tempo un marchio distintivo delle pellicole da lui interpretate, in JCVD raggiunge anche quell’agognato riconoscimento attoriale la cui mancanza gravava su una carriera di svilenti blockbuster dalla grama consistenza. Forse non ci sarà alcuna giustizia nel gioco al massacro dello star-system americano, ma di sicuro l’intensità e l’autoironia dell’attore belga nell’interpretare la storia di El Mechri e Benudis, sono le armi attraverso le quali riprendersi e riconquistare una propria personale dignità .