Il film, datato 1955, è di un’attualità disarmante ed incantata. Si contendono la scena due donne con le loro rispettive relazioni amorose non prive di conflitti, drammi e incomprensioni. Susanne (Eva Dhlbeck) è direttrice di uno studio fotografico di moda. Una donna fragile, sensibile, sedotta ed abbandonata dall’amore. Doris (Harriet Andersson) è la sua indossatrice. Una giovane modella, arrivista ed ingenua oggetto di un corteggiamento d’amore, di cui non è mai paga. Goteborg è la località dove entrambe si dirigono per lavoro, in realtà rappresenta la speranza per Susanne di rivedere l’uomo amato, sparito da mesi dalla sua vita e per Doris di allontanarsi dall’amante. In quell’occasione entrambe riceveranno una lezione indimenticabile. L’umiliazione subita per amore, permetterà a Susanne di dismettere i panni della vittima e di rivedere la relazione da un punto di vista totalmente nuovo. Doris avrà soddisfatto almeno per un po’ la sete di vanità e la fame di denaro. Ingmar Bergman è uomo del suo tempo. Regista tra i più prolifici della contemporaneità , dotato di una sensibilità rara ed inesauribile. Artista in bilico tra una realtà da traslare e un cinema da vivere. La narrazione pullula di virtuosismi poetici. Puntuale ed efficace la sceneggiatura, di cui i personaggi si fanno megafoni umani. Il teatro insegna al metteur en scene il gioco delle maschere, di cui gli attori sono i manichini. La nevrosi, priva di pathos esistenziale, di Susanne sposa l’acerba levità di Doris a metà tra faceto e lirico. Il volto delle donne, regala alla camera per lo più espressioni di cerea immobilità , a sprazzi interrotte da tracce di fatuo sorriso, amaro o disincantato. La pellicola scivola con la velocità e l’urgenza di un treno sulle rotaie, le stesse che conducono Susanne verso il suo Henrik Lobelius (Ulf Palme). Il volto di lei all’esterno di un finestrino, disperato, amareggiato, bagnato dalla pioggia e appena illuminato dal pallido candore della luna, è tra le immagini più belle e appassionate del film. La donna è un’immagine cara al regista, ma evanescente. In alcune sequenze da oggetto di primo piano si fa sfondo, essenza impalpabile ma presente. In altre compare come quadro, nome o elemento da cornice. Il ruolo di ciascuna ha una sua ragion d’essere nel gioco delle parti e nella costruzione di piani sociali, tanto fittizi quanto necessari, per dare senso al tutto. Un congegno attentamente studiato dall’uomo regista, che svela in ogni fotogramma il suo mondo interiore, popolato da tanti e diversi universi femminili, tutti orbitanti attorno alla figura materna, aleatoria e conflittuale al contempo.