
Tino Ranieri, in una monografia dedicata a Ingmar Bergman (della collana “Il castoro cinema”), scrive: «per Bergman vincere la solitudine mediante l’amore significa il più delle volte essere soli in due». Il regista nel 1953, ancor prima di Sogni di donna, mette in scena Una vampata d’amore, da lui definito un film “relativamente sincero e vergognosamente personale”. In questo film, la solitudine di cui parla Ranieri ed il realismo espressionistico sono già evidenti. A quell’epoca il regista svedese lottava con i “demoni della gelosia retrospettiva”: innamoratosi di una donna, le chiese i dettagli piccanti delle sue precedenti relazioni. Le confessioni di lei gli provocarono ondate di violenta e incontrollabile gelosia, che riuscì a placare solo scrivendo. Così nacque il soggetto per Una vampata d’amore. Albert (Åke Grönberg), direttore artistico del Circo Alberti, ama Anne (la voluttuosa e sensuale Harriet Johansson), donna volubile, lussuriosa quanto scaltra, stanca come lui della routine di miseria e precarietà in cui sono precipitati a causa dei vagabondaggi con il circo. La fame, il freddo, la sporcizia, gli stenti, la penuria li conducono in una spirale di disperata e inesorabile follia. Giunti alla città in cui risiede Agda (Annika Tretow), moglie di Albert, Anne cade preda di una gelosia ingiustificata. Vane si rivelano le promesse d’amore dell’uomo: Anne ha già deciso, non la troverà più ad attenderlo al suo ritorno. Inaspettatamente, Albert, rivista la moglie, realizza quanto gli manchi la sicura e tranquilla vita piccolo borghese che la donna gli assicurava, e le propone di ritornare a vivere insieme. Nel frattanto Anne cade nelle mani dell’infingardo e viscido Frans (Hasse Ekman), attore piacente che con l’inganno l’attira tra le sue braccia, per umiliarla subito dopo. A dispetto delle deviazioni e dei tradimenti reali o virtuali compiuti da entrambi, alla base li muove un’insoddisfazione latente, e il bisogno di realizzare rispettivamente le loro vite, da troppo tempo in balìa di un destino beffardo. Il circo tanto odiato e vituperato, non concederà ai protagonisti via di fuga, perché questi personaggi, ancor prima che degli eventi, sono vittime di se stessi, precipitando nelle trame da loro tessute. Anticipando alcuni stilemi che faranno di Federico Fellini un maestro del cinema d’autore, Bergman non è da meno nel tratteggiare le nevrosi, le crisi, i drammi, che sconvolgono l’uomo-attore. Il circo è un’allegoria triste e dolorosa delle maschere indossate dai suoi giocolieri, dai fantini, dai clown e da ogni burattino, fatto di pelle ed ossa. Al termine dello spettacolo, ciò che resta è una voce che annuncia la fine. Ed un uomo – un circense, un clown, un giullare –, al limite del suo stesso contegno, mangia polvere ed umiliazione tra gli sguardi increduli e divertiti di una folla, molle e indolente, pronta a volgere le spalle all’inspiegabile delirio umano.