I primissimi anni ’80 registrano il ritorno sulle scene del licantropo. Dimenticati all’indomani del monster movie targato Universal, i lupi mannari trovano fresca collocazione in sala grazie alle appassionate riletture che Joe Dante prima e John Landis poi effettuano nei confronti della tradizione in bianco e nero. Apparentemente legata ai cliché horror quella offerta dal regista de L’ululato, decisamente più personale il ragionamento portato a termine con Un Lupo Mannaro Americano a Londra. Landis, al contrario dell’amico e collega, vi arriva con alle spalle The Blues Brothers e in cantiere Michael Jackson’s Thriller. Un regista affermato quindi, che può permettersi libertà di scrittura e addirittura una società di produzione sulla quale appoggiarsi, la Lycanthrope Films Ltd. Jack (Griffin Dunne) e David (David Naughton) sono due studenti americani che decidono di partire per una lunga vacanza di tre mesi. Arrivati nell'Inghilterra del nord, l'autista che li ha accompagnati li lascia in una zona di brughiera popolata da gente rude e inospitale. La loro unica raccomandazione è quella di fare attenzione alla luna piena. Durante la notte, stranamente, i due vengono assaliti da una creatura mostruosa; Jack viene dilaniato mentre David riesce a salvarsi riportando qualche graffio. Trasportato in un ospedale londinese, si risveglierà tre settimane dopo ancora sotto shock. Tutto sembra essere passato ma in lui un drastico cambiamento è in atto. La quinta fatica dietro la macchina da presa di Landis è un’opera pressoché sperimentale, mezzo utilizzato per appropriarsi del genere al fine di riscriverne le regole. In contrappeso tra la continua alternanza di brivido e risata, Un Lupo Mannaro Americano a Londra resta impresso nella memoria dell’appassionato e non per i reiterati momenti onirici capaci di spezzare, alterandola, la continuità narrativa reale. Procedimento che, oltre a dichiarare lo spassionato amore per la creatura di Waggner e Siodmak, rivela la sincera infatuazione per il cinema di Luis Buñuel. I corridoi di sogno e incubo attraversati da David Naughton si alternano con prodigiosa continuità e sincronia, terminando in una parabola di vita grottesca. Unica nella storia del filone, perché la sola a non prevedere la morte per una pallottola che non sia d’argento. Landis, a partire dai titoli di testa affidati alle note di Blu Moon, sembra incapace di prendersi sul serio. Eppure il miracolo riesce. Si ride, e di gusto, quando è il momento di farlo - una demenza contagiosa, che non risparmia nemmeno battute e pose del porno proiettato in un cinemino a luci rosse - e ci si spaventa, come raramente accade, durante l’estenuante sequenza nella brughiera; mentre l’inseguimento della metropolitana, con tanto di luccicante dolly a rivelare l’ingresso della bestia, regala all’autore uno dei picchi tecnici raramente raggiunti in carriera. Gli omaggi alla storia e ai personaggi creati dalla Universal vengono destinati esclusivamente allo scambio di battute tra i protagonisti, mentre la rinnovata collaborazione con Rick Baker (già nel film d’esordio Slock) rilancia la sfida a base di effetti speciali ad un anno di distanza da quanto mostrato in The Howling da Rob Bottin. Simile il sorprendente risultato finale, diversa la prospettiva emotiva attraverso cui lo si raggiunge. Se Joe Dante con la trasformazione dell’uomo in lupo intendeva trasmettere liberazione sessuale, John Landis è più interessato alla sofferenza fisica della mutazione. L’effetto arriva eccome: con il povero Naughton costretto ad attendere la notte con l’ansia di chi è destinato alla tortura. Baker, pur non arrivando ai livelli di Bottin, legherà per sempre il suo nome a Un Lupo Mannaro Americano a Londra, tanto da non riuscire più a ripetersi. Nemmeno nell’ultimo, deludente Wolfman.