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Afterschool

05/02/2010 12:00

Chiara Napoleoni

Recensione Film,

Afterschool

Robert frequenta una prestigiosa scuola nel New England...

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Robert frequenta una prestigiosa scuola nel New England. Come tanti suoi coetanei, è un adolescente svogliato, insicuro e problematico, che cerca di compensare le proprie difficoltà attraverso un uso massiccio e sregolato di internet. Da un angolo della mensa telefona sottovoce a sua madre confessandole di non sentirsi all’altezza delle aspettative dei suoi compagni, e poco dopo è davanti all’infermeria in coda per prendere dei farmaci per migliorare l’apprendimento. Tutto scorre lentamente nel grande campus, cadenzato da ritmi e abitudini scolastiche rassicuranti, fino a quando, come un fulmine a ciel sereno, due delle ragazze più belle e popolari della scuola muoiono proprio davanti agli occhi di Robert per colpa di una dose di cocaina mischiata con delle sostanze tossiche. La violenza con la quale avviene la morte delle ragazze, come una scarica di elettroshock, risveglia le anime intorpidite degli studenti e degli insegnanti, generando ansie e paranoie. L’elaborazione del lutto collettivo verrà affidata proprio alla mente psicologicamente distrutta dell’unico testimone reale del fatto: il giovane dovrà girare un video in memoria delle studentesse defunte, un contributo amatoriale che si rivelerà ben presto una scomoda “finestra” sulla reale condizione interiore del protagonista e sulle sconvolgenti dinamiche interne di una scuola “perbene”.


Opera prima del giovanissimo e promettente Antonio Campos, Afterschool è lucido, ammirevole, scioccante. Lo sconcertante ritratto di un’epoca e di una generazione viene vissuto dallo spettatore attraverso lo stesso linguaggio dei suoi protagonisti: uscendo dagli schemi canonici, Campos ci fa entrare dentro Youtube, facendoci rivivere i brividi e le meraviglie che può offrire la rete attraverso la macchina da presa. «Prima dell’era della tecnologia digitale, l’occhio di Dio era soltanto un’astrazione; ora, invece, una camera digitale, portata tranquillamente in tasca, può filmare in qualsiasi momento qualunque cosa che venga condivisa con il resto del mondo.»


In questo modo Campos cerca di focalizzarsi sulla natura del suo protagonista: lunghe panoramiche, interminabili piani sequenza, inquadrature imperfette e fuori fuoco ricalcano il punto di vista di un adolescente in conflitto con il mondo, che cerca risposte avvalendosi di un filtro, quello fornito passivamente dallo schermo e quello ricercato attivamente attraverso la videocamera. La regia del giovane newyorkese perde in tecnicismo ma acquista in significato, riproducendo metaforicamente il disagio di una generazione attraverso un marchio autoriale ben distinto, che si dissocia dalle patinate e caricaturizzate immagini che vengono fornite solitamente degli adolescenti, facendosi portatore di un’inaspettata e lungimirante autenticità.


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