Abbandonata l’Inghilterra in gioventù per cercare fortuna in Francia, Suzanne è una donna borghese non più tanto giovane, stanca della solita e ovattata routine quotidiana. Dopo aver vissuto una vita in funzione dei figli e del marito, la noia la porterà ad aprire uno studio di fisioterapia nella propria casa per riprendere a lavorare. Nel corso dei lavori, Suzanne incontrerà Ivan, un silente e rude operaio catalano con cui fin da subito inizierà una passionale relazione che la porterà a rivedere tutta la sua vita. L’amore che lega i due, infatti, sarà talmente forte ed esclusivo da mettere in discussione il matrimonio ventennale di Suzanne, il rapporto con i suoi figli e il suo status sociale, trasformando la passione in una lotta all’ultimo sangue per ottenere l’emancipazione. Ritratto di una donna che rimette coraggiosamente in discussione tutta la sua vita, L’amante inglese, purtroppo, non riesce ad arrivare al cuore dello spettatore, perdendosi in una narrazione prevedibile e scontata. La rappresentazione di una generazione che tenta di dare una svolta alla propria esistenza inizia ad andare di moda sul grande schermo, presentandoci sempre più personaggi avanti con l’età che decidono coraggiosamente di rimettersi in gioco in un mondo che spesso non è in grado di accoglierli. Cavalcando la via della commedia, Meryl Streep è stata incoronata “icona” del genere, sorprendendoci con Mamma mia! e riproponendosi in vesti simili insieme ad Alec Baldwin in È complicato. La via della rinascita però non si è tinta solo di rosa e ci ha regalato grandi interpretazioni, più o meno drammatiche, anche al maschile, come quella di Richard Jerkins ne L’ospite inatteso e di Eric Cantona e Steve Evets ne Il mio amico Eric di Loach. La sorte de L’amante inglese sarebbe dovuta essere simile, grazie soprattutto ad una credibilissima protagonista femminile come Kristin Scott Thomas, già familiare a ruoli del genere (ricordiamo il commovente Ti amerò sempre) e in piena sintonia biografica con il personaggio. L’ultimo film di Catherine Corsini però, sebbene abbia tutte le carte in regola – come ad esempio un interessante e articolato cast artistico e tecnico al femminile, a partire dalla sceneggiatura per arrivare alla fotografia (dove scopriamo una bravissima Agnès Godard) – non riesce ad interessare oltre la prima mezz’ora, durante la quale prevale il piacere dato dalla bellezza della fotografia e dalla bravura dei protagonisti. Superata la fase iniziale infatti, la trama viene sviluppata con una dose eccessiva di “qualunquismo”, che nel caso specifico nuoce alla messa in scena, dandole un carattere fortemente artificioso e prevedibile, lasciando poco spazio alla dimensione psicologica ed emotiva dei protagonisti, in un’opera che avrebbe dovuto concentrarsi quasi esclusivamente su quest’aspetto. Il personaggio di Suzanne, messo al bando assieme al suo amante, non fa che ricordare allo spettatore tutta una serie di caratterizzazioni cinematografiche già viste, ripetute, che si dimenano all’interno di uno script focalizzato sullo scorrere degli eventi e poco approfondito dal punto di vista emozionale. E in un film “d’amore” non è di certo un dettaglio trascurabile.