Se a Walt Disney va dato il merito di aver contribuito all'affermazione dell'animazione tradizione su vasta scala, alla Pixar va riconosciuto il medesimo merito nell'ambito della computer grafica. Ma le due compagnie non devono essere considerate le uniche fonti creative di emozioni: spesso, tra un battage pubblicitario e l'altro lanciato dai colossi dell'industria, si affacciano sul mercato cinematografico esperienze uniche nel loro genere che non godono della visibilità adeguata. Piccole produzioni, tecnicamente modeste, ma in grado di tracciare con un pennello i contorni dell'esistenza umana attraverso la sensibilità personale del proprio autore. Nel caso di Appuntamento a Belleville, lo sceneggiatore e regista Sylvain Chomet fa circolare con leggerezza e malinconica spiritualità trasfigurate visioni creative, con lo stesso tocco divino con cui lo scultore trasforma un normale tronco d'albero in un'opera d'arte. Anni '50. Champion è un bambino molto triste che abita in periferia di Parigi. Passa le giornate in silenzio, sotto lo sguardo preoccupato della nonna, Madame Souza, la quale tenta in diversi modi di farlo interessare a qualcosa: ci prova inizialmente scoprendo il pianoforte impolverato, poi regalandogli un cane. I suoi sforzi sembrano non portare a nessuna conclusione fino a quando non scopre la sua vera passione: le biciclette e il Tour de France. Il giorno successivo il piccolo Champion riceve in regalo un triciclo: nel suo volto riaffiora la felicità e Madame Souze ritrova finalmente la serenità . Con tutte le forze in suo possesso e senza mai perderlo di vista, aiuterà il nipote in ogni attività sportiva affinché un giorno possa raggiungere l'ambito sogno; senza mai abbandonarlo, anche quando la mafia francese metterà loro - letteralmente - i bastoni fra le ruote. Commovente parabola sulla vita e sul rapporto incondizionato tra nonna e nipote, Appuntamento a Belleville è il resoconto, estraneo al compromesso, di un disegnatore viaggiatore, nato in Francia, trasferitosi prima in Inghilterra per lavoro e successivamente a Montreal, in Canada. Con tracce persistenti di houmor nero, un solido e imponente accompagnamento musicale - curato da Benoît Charest - con dominanti influenze jazz e personaggi indimenticabili (le mitiche Triplettes de Bellville) il film è un'avventura particolare, intima e complessa. È innegabile che per godere delle meraviglie intese e sottintese dell'opera semi tradizionale di Chomet (vi sono infatti innesti di impercettibile computer grafica) è necessaria una certa predisposizione caratteriale laddove ritmo, continui cambi di registro e uno sviluppo ermetico costringono lo spettatore a tenere rigida l'attenzione. Belleville, con i suoi palazzi allungati e la popolazione in sovrappeso, non è solo una critica divertita all'invadente consumismo occidentale (la statua della libertà "ingrassata" ne esprime in parte la genialità dell'intuizione) o un semplice tributo seppiato al passato (l'introduzione cantata, omaggio agli anni '30): rappresenta soprattutto la difficoltà del cambiamento. Il difficile viaggio che porta l'uomo comune ad abbandonare il proprio paese, la propria casa, per affermarsi nella giungla dell'asfalto. Lo stile caricaturale di Chomet - tendente al grottesco - non interferisce sull'integrità del soggetto; al contrario, nella volontà di enfatizzare e raggiungere la perfezione nelle animazioni, si cela il risultato di un processo creativo che premia l'essenzialità anziché la complessità narrativa. Se per Oscar Wilde «la logica è l'ultimo rifugio della gente priva di immaginazione», per Chomet lo è la dialettica. I personaggi si esprimono attraverso il linguaggio non verbale, con gesti ed espressioni che ne rivelano l'Io: lo strabismo accentuato della nonna e il suo sistemarsi costantemente gli occhiali; i silenzi tristi del nipote (fotocopia di Fausto Coppi); il treno che disturba le giornate prive di senso di un cane, Bruno, non considerato dal suo padrone, sono dettagli all'apparenza marginali che tuttavia diventano necessari alla costruzione poetica del climax finale. E quando il geniale Chomet cala il sipario utilizzando le stesse parole con cui l'ha aperto ("Dillo a nonnina, è finito il film?") verrebbe da rispondere: purtroppo si, è finito.