Non è difficile immaginare i brainstorming - ma già che ci troviamo nel nuovo millennio ci viene anche facile pensare a computer superintelligenti che lavorano con un numero (minimo) di variabili - che stanno alla base della produzione film come Le code a changé. Il nuovo film di Danièle Thompson tradisce subito le sue velleità da film di successo, per non dire la sua intima natura da prodotto di facile consumo. Le variabili, quindi, vengono pressoché risolte: con un casting che si preoccupi di reclutare la supposta crème del cinema transalpino (Dany Boon, Emmanuelle Seigner, Pierre Arditi) e la solita Parigi da cartolina per un perfetto look internazionale, al quale possiamo anche aggiungere l'ingaggio del nostro Nicola Piovani per la colonna sonora. Il contenuto, come si conviene, è anonimo e calcolato, fatto di dialoghi e situazioni simpaticamente convenzionali. I pochi guizzi di supposta originalità rischiano peraltro di spiazzare chi guarda; basta pensare agli inopportuni sbalzi temporali, oppure a come certi spunti (il rapporto dei vari personaggi con il caso e la malattia) vengano pressoché dribblati risolti con una banalità che risulta meno conciliante del dovuto. La regista, che scrive il film assieme al figlio Christopher, cerca quindi di emulare lo stereotipo del film francese; sarà anche per questo legarsi a simili concetti precostituiti che Le code a changé sembra un film visto e rivisto, intrigante nel profumo ma pressoché inesistente nella sostanza. Alla Thompson ci sentiamo di consigliare, piuttosto, di approfondire meglio la cinematografia del di lei padre Gérard Oury, che riusciva, con materiali di partenza nemmeno così diversi, a creare un cinema magari non poetico ma sicuramente ben più sincero e, in ultima istanza, godibile.