Il Grande Fratello portato alle estreme conseguenze. La tecnologia che permette un controllo illimitato e senza freni morali; la Televisione che fagocita l’esistenza dell’uomo e controlla le vite degli spettatori. Orwell all’ennesima potenza. Truman Burbank (Jim Carrey) è una persona felice. Ha un buon lavoro, una moglie bella e amorevole e una casa accogliente nella cittadina-paradiso di Seaheaven. Ma la sua vita è un sogno di plastica, è un vestito di broccato abilmente confezionato da un sarto senza scrupoli su un inerte manichino di legno. Tutto ciò che Truman possiede, materialmente e affettivamente, infatti, non è reale, ma è la creazione artificiosa di un demiurgo spietato che ha dato il suo mondo di cartone in pasto alla famelica schiera di milioni di schiavi del tubo catodico. Truman Burbank è solo un personaggio, la marionetta principale di un teatro dei burattini che è l’ultima frontiera del reality show: la trasmissione no-stop della sua vita. Consegnato, appena nato, nelle mani della celluloide, Truman (uno strepitoso Jim Carrey) ha avuto in dono, a sua insaputa, una vita fittizia: ciò che a ognuno di noi è dato dal Fato (o da Dio) a lui è stato consegnato da un produttore televisivo, Christof (Ed Harris). Lui ha creato dal nulla il puzzle della sua esistenza e ne ha plasmato a piacimento il carattere studiando a tavolino le sue esperienze: la sua famiglia l’ha creata lui, il dolore per la perdita del padre anche, la scuola, gli amici, l’emozione per il primo bacio, la prima storia d’amore, il matrimonio, il lavoro, tutto l’universo di Truman è stato forgiato da Christof. Le persone che lo circondano infatti sono attori, la città in cui vive è creata ad arte in uno studio televisivo: è tutto un enorme baraccone creato per il sollazzo dei teledipendenti di tutto il mondo a scapito dell’unico inconsapevole, il protagonista principale. Ma ogni persona ha sete di conoscenza, in ogni persona c’è un Ulisse che ha voglia di nuovi orizzonti, di svelare cosa c’è al di là del suo rifugio quotidiano e, nonostante una paura del mare inculcatagli ad arte fin da ragazzino, la voglia di Truman di partire – unita ad alcune clamorose falle nella “sceneggiatura” della sua vita – lo porteranno a scoprire l’inganno risvegliando anche il ricordo di Sylvia, un suo amore adolescenziale, l’unica persona che, mossa a pietà e uscendo dal personaggio, aveva provato ad avvertirlo della sua esistenza da cavia di laboratorio. Peter Weir lancia la sua accusa spietata e amara alla crescente invasività dei media nelle nostre vite e al progressivo imbarbarimento della coscienza critica degli spettatori, privi ormai di qualsiasi morale e opinione, ridotti a semplici imbuti dentro cui far fluire le immagini. In uno scenario desolante Truman è il simbolo del riscatto dell’uomo che rifiuta di farsi ingabbiare in schemi prefissati che ne calpestano la dignità. Da sottolineare i continui rimandi presenti nella pellicola: dalle vie di Seaheaven tutte dedicate ad attori famosi, agli affetti più cari di Truman (Meryl, Marlon), dal chiaro richiamo a Cristo nel nome del Produttore finanche alla barca utilizzata per la fuga, la “Santa Maria”, come una delle tre Caravelle di Colombo: l’ultima caravella in grado di portare Truman verso la scoperta del suo Nuovo Mondo.