Esordio felice della liasòn artistica Ammanniti-Salvatores, Io non ho paura, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore, è una delle migliori produzioni del regista premio Oscar che, con questa pellicola, torna a soddisfare a livello internazionale pubblico e critica. La pellicola, acclamata negli Stati Uniti e nel nostro paese dove si è aggiudicato ben due David di Donatello (Miglior fotografia e David Scuola), è uno dei tasselli fondamentali di una fase più matura della filmografia del regista. La sceneggiatura scritta da Niccolò Ammanniti insieme a Francesca Marciano e l’immancabile fotografia di Petriccione sono dei veri e propri gioielli sapientemente valorizzati dallo stile inconfondibile di Salvatores. Dulcis in fundo, la prova dei giovanissimi attori che non sfigurano accanto ai navigati. Anni ’70. Michele ha dieci anni e vive in un paesino della Basilicata. Ogni giorno esce all’aperto per giocare e andare in bicicletta con la sorella e gli amici. Un giorno, mentre sconta la penitenza per aver perso una gara, si imbatte in una buca scavata nei pressi di una casa diroccata e coperta da una lamiera. Michele, scoperchiando il profondo buco del terreno, vede sul fondo un piede che esce da una coperta. Dopo lo spavento iniziale, ritorna sul posto e scopre che in quella cavità del terreno è nascosto un bambino come lui, biondo e delicato, ma ormai quasi cieco per il buio e mal ridotto per la fame e gli stenti. Michele non capisce il motivo di quella reclusione ma decide di aiutarlo, portandogli puntualmente cibo, conforto e amicizia. Laddove non arriva la morale degli adulti, arrivano la purezza e il coraggio dei bambini. Una soggettiva ad altezza di bambino che mescola la tensione dei migliori thriller e la sensibile e pacata drammaticità dei grandi film che raccontano l’infanzia: così Gabriele Salvatores ci conduce nel mondo di Michele tratteggiato da Ammanniti. L’età dell’innocenza, raccontata realisticamente nelle sue tragedie e mostruosità , ha qui il sapore e la sensibilità di alcuni film di Truffaut. La storia di un luogo, di una sofferenza, di un’amicizia, di un atto di coraggio, di un rito di iniziazione. Sono tanti i livelli narrativi di questo film che, nella sua semplicità , sostanziale e formale, racchiude tutta la sua bellezza e particolarità . Il piccolo protagonista svela l’orrore nascosto in quel che c’è di più famigliare: dietro i luoghi solari e caldi dove trascorre l’estate, nei propri genitori, Michele scopre scenari e artefici di terribili nefandezze. Non c’è spazio per la fantasia nell’infanzia raccontata da Salvatores che qui porta ad uno sviluppo più completo e felice i tentativi stilistici e contenutistici già tentati in Denti e Nirvana. Nell’amicizia tra Filippo e Michele si unificano due volti, quello del nord e quello del sud italiani, si uniscono l’alta borghesia e il proletariato, si avvicinano due bambini, simbolo della parte più pura e vera di un paese dalle mille contraddizioni. La splendida fotografia di Petriccione conduce dalle claustrofobiche profondità del terreno ai gialli campi di grano a perdita d’occhio; la regia di Salvatores, nel pieno della sua maturità , esprime al massimo la sua capacità mimetica; Abatantuono, da bravo caratterista, si plasma perfettamente nel ruolo del carnefice. Ma la vera rivelazione sono i due piccoli attori, Giuseppe Cristiano e Mattia Di Pierro che, completamente immersi nei loro personaggi, emozionano e coinvolgono fino all’amara catarsi finale.