
La storia di Re Erode, e della sua perversa ossessione per la figliastra Salomé, viene approfondita da Al Pacino attraverso una sperimentazione in bilico fra cinema, teatro e documentario. Il regista narra la propria ossessione per Oscar Wilde mostrandone i preparativi dell’opera teatrale; al contempo racconta le vicissitudini che contraddistinsero la vita del noto drammaturgo e scrittore inglese. Nel 1996 Al Pacino interruppe momentaneamente quella florida carriera da attore che lo rese, grazie ad alcuni grandi successi, una delle stelle più splendenti nel firmamento di Hollywood; e lo fece per spostarsi dietro la cinepresa e dirigere Riccardo III. Esattamente sedici anni dopo, la star ci riprova: sempre osservando lo sterminato universo letterario inglese, l’occhio di Al Pacino si fissa sull’opera più controversa di Oscar Wilde, nonché quella più dibattuta nei secoli immediatamente seguenti la sua mise en scéne nei teatri della Londra vittoriana: Salomé. Il regista-interprete mette in scena un avvincente connubio - quello fra teatro e cinema - dove le gesta sibilline di Re Erode (reso ancor più curioso da un certo caratterizzante brio “bisex”) e le danze esotiche della figliastra rivivono sul palco di un teatro di posa e respirano una nuova vita grazie alla macchina da presa, strumento a completo servizio dei volti e dei dettagli di abiti contemporanei straordinariamente armonizzati a quei costumi d’epoca che la stratificata e modernissima opera di Wilde vorrebbe. Wilde Salomé si tinge di nuove sfumature quando osa intrecciare alla già difficile commistione fra due arti - sebbene affini - una terza chiave di lettura, quella documentaristica. Come dicono i titoli di testa, Wilde Salomé è “una storia d’ossessione”: la passione di Erode e la relazione fra Pacino per la sua opera coraggiosa. Ma forse non basta l’amore per il proprio lavoro a farne, questa volta, un esperimento del tutto riuscito. Quella di Pacino è una ricerca interminabile che può essere in grado di soddisfare il suo desiderio primario - rendere giustizia a un genio degno - più che una maggiore fama (difficile anche solo immaginarla); un riconoscimento più equamente distribuito per la sua intera opera drammaturgica. Nel tentativo, però, il regista incappa in un autocompiacimento inaspettato e sicuramente indesiderato; ben visibile quando, alla delineazione dell’ambigua figura di Wilde, sostituisce un semplice “mostrare”. Inscenare gli sviluppi delle sue avventure in tribunale (ciò che rese così discusso l’autore) e, parallelamente, rivelare tutti i passi della travagliata operazione che il suo Wilde Salomé rappresenta. Le parole del regista-interprete (è lui Re Erode) riguardo gli intenti del documentario/film – quelli di illuminare la vita e l’arte di un drammaturgo che, a sua detta, sarebbe “misconosciuto” – sono solo una promessa che viene infranta dinanzi a una dimostrazione che sfiorerebbe l’egocentrismo se fosse deliberatamente un backstage dell’ossessione di Al, in sopravvento su quella di Wilde. Purtroppo, però, c’è l’impressione che questa caduta sia davvero accidentale e non voluta; il che ci fa rimpiangere ancor più quella che sarebbe potuta essere una sperimentazione atipica ed eccezionale. E il disappunto è ancora più acuto per quella sbalorditiva attrice che risponde al nome di Jessica Chastain, secondo cui Salomé non sarebbe solo una fanciulla alle prese con la scoperta forzata della propria sessualità ma nientemeno che la mefistofelica metamorfosi di una celestiale lolita in un’inquietante femme fatale, che compie il demoniaco sacrificio della propria purezza in nome dell’amore più sanguigno.