Lee Gates è il carismatico presentatore del programma televisivo Money Monster, che si occupa di finanza e consiglia investimenti tra intermezzi musicali ai limiti del trash e battute volgari, il tutto sotto la supervisione di Patty Fenn, la ferrata regista che si nasconde dietro le quinte e comunica con Gates tramite un auricolare. Il lavoro di Patty è arduo, ma si rivelerà ben più problematico quando Kyle Budwell, dopo aver perso il suo capitale in un investimento consigliato da Gates, farà la sua comparsa nello show e costringerà il conduttore in un gilet imbottito di esplosivo, pronto a saltare in aria da un momento all’altro. È la seconda volta in un anno che George Clooney viene preso in ostaggio da persone che sovvertono un ordine dato per scontato: dopo la cellula di sceneggiatori comunisti che muovevano i fili di Hail, Caesar!, ultima fatica dei fratelli Coen, ora si tratta di un giovane investitore sovversivo che fa la sua comparsa nello studio tv della trasmissione Money Monster, quella che dà il proprio titolo al film. Dopo un’abbagliante carriera da attrice, che ha provveduto a conferirle uno dei nomi più prestigiosi a Hollywood, e tre lungometraggi come regista (senza contare il suo apporto a serie tv come House of Cards e Orange is the New Black), Jodie Foster torna dietro la macchina da presa per accodarsi ai tanti registi e autori che hanno provato, soprattutto in tempi recenti, a raccontare quel mondo inquietante celato dietro le macchine macina-soldi, di ogni natura. A proposito di ciò, si ricordi il folgorante e atipico The Big Short, per il quale McKay si è aggiudicato l’ambita statuetta dorata per la sceneggiatura. Money Monster non può far sfoggio di uno script tanto potente, eppure riesce a comporre una stratificata visione da incubo non più incentrata sull’elemento “denaro” ma, più ampiamente, su quello del “potere”, in ogni sua fattezza: il potere della manipolazione giornalistica d’assalto e dei mass media, il potere di un detonatore pronto a scattare, il potere dei soldi e, infine, il potere della parola di un personaggio pubblico. Lo studio televisivo di Money Monster è, dunque, una scatola chiusa che si fa palcoscenico della realtà, prevaricando su tutto quello che accade al di fuori delle sue mura: la verità risiede solo nelle chiacchiere di chiunque vi entri e ne faccia parte, tanto in quelle del carismatico conduttore Lee Gates quanto, successivamente, nelle invettive pubbliche di Kyle. Money Monster non è esente da cadute nel cliché, e la sua lettura del mondo della finanza e delle meccaniche del giornalismo è prevedibile e, in fondo, privo di quella robustezza riscontrabile in tutti quei film che hanno abbagliato gli spettatori negli ultimi due anni, da dal già citato The Big Short a Spotlight, dal meno recente The Wolf of Wall Street ad American Hustle, per finire anche a Margin Call. Sguardi profondamente differenti sui medesimi oggetti, ma legati a una sorgente comune che può essere ritrovata in quel grandioso Wall Street diretto da Oliver Stone negli anni ’80 e poi rispolverato, meno efficacemente, dalle mani dello stesso regista con un sequel, uscito giusto poco prima dell’ondata di film intenti a mostrare che “il denaro non dorme mai”. Tuttavia, grazie a brillanti trovate ironiche e autoironiche in grado di ridere dell’action movie, e sfociando non solo nel medesimo genere ma anche nel thriller più puro, Money Monster riesce indiscutibilmente a scoprire abili stratagemmi per intrattenere e costruire una pungente satira contro i bersagli sovra citati, fra cui va necessariamente incluso anche il mondo stesso della tv e dello show business.