Che il sonno della ragione generasse mostri non era certo una novità , almeno sin dai tempi di Goya. E non sarebbe nemmeno troppo curioso, in fondo, scoprire che alla base dell'ultima fatica di Mike Flanagan ci sia proprio la celeberrima opera dell'artista spagnolo. Perché non sono certo le suggestioni a mancare a un film come Somnia, horror partorito dal notevole talento del regista di Oculus che, abbandonati specchi infestati e famiglie omicide, decide di gettarsi a capofitto nell'abusato filone dei bambini inquietanti e dei loro misteriosi poteri soprannaturali. Da Shining fino al recente Babadook, passando per Il Sesto senso - ma anche per Insidious, e chi più ne ha più ne metta - l'horror ha da sempre avuto una certa fascinazione nel colorare di tinte oscure e pericolose l'innocenza e la purezza dei suoi giovani protagonisti. Poca sorpresa, allora, quando i sogni del piccolo Cody (il Jacob Tremblay visto di recente nell'acclamato Room) – un'infanzia trascorsa, sin dalla prematura morte della madre, da una famiglia affidataria a un'altra fino all'incontro con Mark (Thomas Jane) e Jessie e Kate Bosworth), coppia desiderosa di superare il lutto per la morte del proprio figlio – cominceranno a prendere forma nella realtà , materializzando desideri, ricordi e fantasie. Prevedibilmente, a farfalle colorate e figli redivivi pronti a riabbracciare la loro famiglia, finiranno per sostituirsi gli orrori e gli incubi pericolosamente tangibili del bambino. É sempre lodevole quando un film – a maggior ragione se di genere – cerca di percorrere la non facile strada del rimosso, del subconscio, delle paure più profonde dell'infanzia. Somnia, nonostante l'immaginario ingombrante alle loro spalle (da non trascurare anche l'inevitabile influenza, tra gli altri, di un film come Nightmare), sa farlo a tratti persino in maniera originale. Eppure siamo lontani dalla solida sicurezza di un horror come Oculus, che con quelle dinamiche, in parte, aveva già dimestichezza. Questo perché, a un'opera come Somnia, a mancare è soprattutto la forza (forse il coraggio?) di andare fino in fondo, di scandagliare quelle dinamiche e quelle paure in tutta la loro potenza perturbante. Ne esce così un film inevitabilmente imperfetto, solo a sprazzi coinvolgente, che trova sia nella scrittura che (sorprendentemente) nella messa in scena i suoi principali punti deboli. Quanto più incisiva e meno superficiale sarebbe stata questa operazione se ci si fosse concentrati esclusivamente sul rimosso e l'inconscio del giovane Cody, piuttosto che smarrirsi, spesso e volentieri, dietro ai dolori (questi sì, decisamente convenzionali) di una madre e della sua mancata elaborazione del lutto? E quanto bene avrebbe fatto al gusto estetico e al valore espressivo del film portare quelle paure infantili fuori da un immaginario consunto e prevedibile – a metà strada tra posticci incubi burtoniani e inquietanti fantasticherie alla Del Toro – tentando di battere nuove, più personali strade, magari persino prive di quegli ingenui sentimentalismi di cui è saturo il finale? Resta l'occasione sprecata di un horror potenzialmente interessante e di un talento smarritosi fin troppo presto. I mostri non abitano più qui.