Nel 1982, durante una vacanza in Germania con sua madre e il patrigno, la quattordicenne Kalinka Bamberski muore in circostanze misteriose. Suo padre Andrè, incapace di credere a questa scomparsa assurda, inizia a cercare la verità: finchè le sue “indagini” lo portano a credere che Kalinka sia stata uccisa proprio dal patrigno, Dieter Krombach. Tra Germania e Francia, Andrè non avrà pace finchè non arriverà alla giustizia. È una vicenda di cronaca nera, quella a cui si ispira il film di Vincent Garenq. All'inizio degli anni Ottanta l'omicidio di Kalinka Bamberski ha indignato, ma anche smosso, Germania e Francia, intente a contendersi il caso della quattordicenne uccisa in Baviera. André Bamberski, convinto della colpevolezza di Krombach, inizia la battaglia legale - poi raccontata nel libro Pour que justice te soit rendue – che ha ispirato Garenq. Dopo due film-inchiesta sui paradisi fiscali, il regista dedica la sua più recente fatica cinematografica al un altro caso giudiziario: In nome di mia figlia è un'opera mista, che cerca l'empatia del pubblico e mescola cronaca, crime e melodramma familiare, ispirandosi direttamente al romanzo. È evidente la fascinazione subita dal regista per questo padre, “eroe” testardo di una vicenda che finisce per somigliare più a una storia di ossessione che a un legal case. Del resto In nome di mia figlia non è fra gli omicidi raccontati meglio al cinema. Il caso Bamberski non ha la potenza civile della storia di Lea Garofalo e neanche l'appeal hollywoodiano dei fatti dietro a Devil’s Knot: è cronaca nera allo stato puro, di quelle che spopolano nei programmi tv del pomeriggio e sui rotocalchi; che appassionano la gente e che, invece, dovrebbero restare sugli atti della magistratura e nel silenzio della famiglia. E, sebbene anche Andrè Bamberski abbia fatto della mediaticità una battaglia, appare chiaro come la vicenda di Kalinka non sia adatta alla fiction. Non serviva certo il giudizio morale, né del regista né del pubblico, a una storia che è già stata interpretata a sufficienza. Due ottimi attori come Daniel Auteuil e Sebastian Koch interpretano una coppia di antagonisti che, dalla realtà al cinema, perde credibilità e spessore psicologico. Tra l'altro, i dialoghi televisivi e la suspance ricreata ad hoc non rendono la vicenda neanche così sconvolgente. Unico personaggio davvero "cinematografico" è la madre di Kalinka, di cui tuttavia l'attrice canadese Marie Josée Croze non restituisce a pieno il ruolo di dark lady. Se il tema di In nome di mia figlia voleva essere l'insabbiamento, la presunzione di colpevolezza, la non uguaglianza della legge...allora film veri sull'argomento – per citarne un paio, Il dubbio (John Patrick Shanley, 2008) e Il sospetto (Thomas Vinterberg, 2012) - erano già stati fatti. Più interessante poteva essere il racconto del ruolo politico dei due stati coinvolti nel caso, Germania e Francia, tra indagini e legislazione giudiziaria. Eppure il film resta così affezionato ai sentimenti dei protagonisti, e allo stile da soap opera, che anche l'inchiesta tanto apprezzata da Vincent Garenq passa in secondo piano.