Finita la guerra, Jerry Mulligan (Gene Kelly) rimane a Parigi per coltivare la propria passione: dipingere. Nonostante nessuno si interessi alla sua arte, e il suo lavoro non gli dia in alcun modo sostentamento, Jerry incontra una ricca signora americana che decide di comprare un suo quadro. La conoscenza della donna si antepone, comunque, a una conoscenza ben più importante: quella di una dolce e graziosa commessa di cui Jerry si innamora, ignaro dell’imminente matrimonio fra la ragazza e il suo amico Paul. Quando Woody Allen immaginava le atmosfere della Parigi protagonista assoluta – e non, assolutamente, mero sfondo suggestivo – di Midnight in Paris, tra i cassetti della sua mente deve aver sicuramente rintracciato le impressioni lasciate, anni prima, da Un Americano a Parigi. È chiaro che la massima opera di Vincente Minnelli sia stata decisiva al punto non solo da penetrare il tessuto narrativo di una delle più rilucenti fatiche dell’ultimo periodo del regista newyorkese, ma anche da condizionare l’atteggiamento dell’artista nei confronti della città, Parigi: quando si comprende di non poter catturare la bellezza del luogo più incantevole del mondo (nemmeno avvolgendolo in una luce calda e seducente), allora si ricorre a un altro strumento, l’arte. Per far sì che ciò sia possibile diviene necessario colmare i locali, i bar, i boulevard di artisti che pullulano in ogni angolo della città. Per Minnelli, il protagonista stesso è un artista – Gene Kelly è un pittore – che all’occorrenza (come da manuale, in ogni musical che si rispetti) si cala nei panni di cantante e ballerino. Ogni star presente finisce per costituire un elemento indispensabile che dinamizza la scintillante Parigi in Technicolor: dalla splendida Leslie Caron - personalmente scelta da Kelly come partner, che apre il sipario del palcoscenico del film esibendosi in numeri di ballo che paiono spiegare, ancora più che la propria personalità, l’eclettismo della danza - sino a Georges Guétary. E quella Parigi è uno sfondo che, ancora oggi, rimane tra i più ammalianti mai fotografati negli studios hollywoodiani. Non solo il genere cinematografico (perché quale opera, meglio di un musical, potrebbe sintetizzare la straordinaria varietà della musica insieme a quella del cinema?) in cui viene incastonato Un Americano a Parigi, bensì tutta la sua struttura, per di più, non è che un continuo omaggio sincero all’eccezionale e sempre prolifica moltitudine di forme sotto cui l’arte può presentarsi ai nostri occhi di spettatori. Tutto ciò è edificato su un impianto da fiaba, in cui i tradimenti e le menzogne si risolvono nel più classico happy ending. Ispirato all’omonimo poema sinfonico-jazzista firmato da George Gershwin nel 1928, la cui opera fa da colonna sonora e accompagnamento musicale per le magnetiche voci delle sue mastodontiche star, Un Americano a Parigi costituisce una delle più luccicanti punte di diamante fra le straordinarie opere sfornate dalla Metro Goldwyn Mayer. Una di quelle che hanno lasciato un’impronta profonda nella “golden age of Hollywood” delle commedie e dei musical. Senz’altro una delle più importanti opere realizzate nel Novecento.