Corre ai margini della Storia il giovane Cassius Clay, mentre le note di Sam Cooke lo accompagnano verso il titolo mondiale e l'inizio della sua leggenda. Corre e pensa alla cintura il futuro campione del mondo dei pesi massimi presto noto come Muhammad Alì, mentre passato e presente, volti noti e ricordi di infanzia, si inseguono accumulandosi sullo schermo e smarrendosi in un mosaico infinito di dettagli e sensazioni che ha l'intensità del più intimo dei ritratti e l'ampio respiro dell'affresco storico e sociale. Basterebbe la magnifica sequenza di apertura per rendersi conto di quanto Ali non sia affatto un film biografico come tanti altri. E non solo per l'unicità del suo protagonista - capace di essere, al tempo stesso, un pugile eccezionale e uno dei personaggi più celebri del suo tempo - ma anche, e soprattutto, per lo sguardo che sta dietro a questa insolita, monumentale ed emozionante operazione. Quale migliore biografia avrebbe saputo conciliarsi meglio con la poetica di un regista come Michael Mann se non quella di un'icona simbolo di una delle epoche più dense e tormentate della storia recente? In chi altri se non nella più brillante, controversa e sfaccettata personalità che la storia dello sport ricordi il regista statunitense avrebbe potuto trovare l'essenza stessa del proprio cinema, quello scarto tragico e assoluto tra dimensione pubblica e privata, tra un sistema di valori personale e una società – spesso e volentieri – ostile a quei valori? Come il tenace protagonista di Jericho Mile, primo archetipo del classico eroe manniano, Alì entra in scena correndo; correndo per non soccombere, per affermare se stesso indipendentemente da un sistema abbruttente e da un mondo che vorrebbe ingabbiarlo, imprigionarlo (anche letteralmente) dietro a sbarre ideologiche e razziali. “Io non sarò il campione che voi volete che io sia” sbotta contro la stampa all'indomani dell'eclatante vittoria su Sonny Liston, la prima, forte affermazione di sé di una lunga serie che, in dieci anni di vittorie, sconfitte e tradimenti sfocerà nel leggendario scontro con George Foreman nella simbolica ed evocativa cornice di uno Zaire ancestrale e adorante. Perché Ali è anche un'emozionante riflessione sul peso e sulle responsabilità dell'essere celebri, sull'umanità, le paure e le contraddizioni dietro al mito, dietro ai guantoni, dietro alle spacconerie e alle sbruffonaggini di un individuo eccezionale eppure, inevitabilmente, umano. Un marasma di spunti, dettagli e suggestioni capace, nel suo rigore formale, di non essere mai caotico e di regalare nelle sequenze degli incontri momenti emozionanti, permettendo a quell'umanesimo così pregnante di esplodere in tutta la sua forza evocativa. Supportato dall'intensa interpretazione di Will Smith e da un cast di comprimari sempre in parte, l'occhio di Michael Mann, frenetico, si perde allora negli sguardi dei suoi interpreti, freme nelle esplosioni soul della colonna sonora, nei colpi portati a segno e nei balletti infiniti sul ring, solo per poi ritrovarsi e ricomporsi, eterogeneo eppure uniforme, grazie a un montaggio ritmico e coinvolgente. Magistrale nel tracciare le coordinate di una biografia anomala ed emozionale e, allo stesso tempo, nel confezionare, senza sentimentalismi o facili trovate, uno dei film sul pugilato migliori di sempre.