«La musica è l’unica strada possibile» afferma uno dei protagonisti di Strade di musica, docufilm realizzato da Michele Morsello Angileri e Giuliano Giacomelli, che a due anni di distanza dalla realizzazione vede la luce della sala. Strade di musica puntualizza, attraverso l’esperienza di diversi artisti di strada, non solo come la musica per questi personaggi sia l’unica via, ma anche l’unico canale sincero e autentico - molto più di un qualche palcoscenico - per veicolare davvero un’emozione. Una Roma imponente e silenziosa, che si schiarisce in un time lapse di suoni e brusii alle prime luci dell’alba, introduce lo spettatore in un viaggio guidato dai due registi. Da Piazza Navona a Ponte Sisto, passando per i vicoli di Trastevere e per le periferie, i personaggi appaiono sullo schermo uno alla volta. Micol, diplomata al conservatorio, suona l’arpa celtica nelle piazze della capitale; il gruppo di rapper Pizza Connection, in procinto di esibirsi, racconta la sua genesi; Andrea introduce il pubblico alle innovative sonorità del suo Hang, una sorta di tamburo d’acciaio; Kiko attraversa l’Europa in camper in compagnia del suo tacabanda. Incontriamo anche Leon, che preferisce suonare nei tunnel della metropolitana per ottenere un’amplificazione migliore e Roberto che, non vedente, si accompagna alla fisarmonica da tantissimi anni. Differenti ma accomunati dalla stessa esigenza di empatia e di arrivare, impetuosi, dentro l’anima dei passanti; nella speranza di lasciare loro qualcosa di proprio. I protagonisti raccontano i sacrifici fatti, le ambizioni e le mille prospettive future. È proprio questo che Strade di musica cerca di afferrare: le scelte e le motivazioni; ciò che ognuno ha perso o ha vinto, esponendosi a una giornaliera incertezza. La risposta è semplicemente una passione, la necessità primaria non di guadagnare per vivere, ma di vivere per guadagnare qualcosa di più profondo. Il documentario si esprime con una semplicità paradossalmente illuminante. L’artista di strada - come viene detto nel film - non è colui che fa l’elemosina, ma un guerriero che lotta contro i pregiudizi di chi cammina, passa e se ne va. Lo stile del racconto, senza artifici, non vuole fare la morale allo spettatore ma si limita a osservare i personaggi muoversi nel loro habitat, cercando di entrarvi in contatto senza mai metterli a disagio. La macchina da presa si inserisce nelle case, nei loro luoghi di formazione, nella dimensione privata, cercando di assorbirne un po’ di energia. Una regia disordinata, libera e coraggiosa come i suoi protagonisti, che non ha paura di risultare ribelle e fuori luogo. Privo di voice over, il film ricorda in parte lo stile di Sacro GRA di Gianfranco Rosi e costituisce sicuramente la migliore modalità per veicolare un contenuto del genere: immediata e in grado di rendere alla perfezione l’istantaneità della vita.