Era il 1967 quando Jacques Tati – con un immenso sforzo produttivo – costruiva, alla periferia di Parigi, una città nella città , opposta all'originale eppure, in un certo senso, a questa speculare, dando finalmente forma alle proprie ossessioni e paure. D'altronde, era quasi da un decennio che quel delirio futuristico e ipertecnologico aveva cominciato a insinuarsi e a mettere radici nelle inventive gag dell'autore, regolando tempi e modi di una comicità sempre più consapevole e provocatoria. Ma se in Mon oncle, seppur già chiare le avvisaglie di un'inevitabile sconfitta, c'era ancora spazio per un'alternativa, è con Playtime che quel nuovo mondo uniformante e impersonale, dominato dalla tecnologia e dalla logica del profitto, raggiunge la sua più completa realizzazione. In una Parigi aliena, in cui un sempre più disorientato monsieur Hulot finisce con lo smarrirsi, mettendo anarchicamente alla prova l'ottusa stabilità del nuovo ordine con il consueto spirito slapstick, Tati compone l'affresco provocatorio di una città divenuta un folle labirinto spersonalizzante che non tollera le differenze e ostacola le relazioni interpersonali. Non c'è più uno scontro di civiltà in Playtime, nessun vecchio mondo da contrapporre all'incosciente avanzare del nuovo (se non in qualche fugace riflesso o nelle confusionarie esplosioni di spontaneità dei suoi abitanti). Gli Autiel hanno vinto definitivamente in questa distopia che non contempla l'alterità e si rimira nelle sue architetture ultramoderne e asettiche, nelle sue forme essenziali e opprimenti e in una geometria sempre uguale a sé stessa. Difficilmente si può trovare un altro film come Playtime, qualcosa in grado di avvicinarsi all'originalità debordante del suo mondo avveniristico e profetico, folle e senza (o quasi) speranza. Un'opera spiazzante, sperimentale e teorica che, dietro la sua innocua facciata da farsa da film muto, rinnega qualsiasi intreccio convenzionale in favore di un'esperienza unica che trova nel formato in 70mm, nella profondità di campo e in una messinscena mai così funzionale agli spazi e alle dinamiche che vi intercorrono tutto il senso di un'operazione esilarante e, al tempo stesso, sovversiva. Persino Hulot, in questo densissimo mondo-formicaio, viene declassato da protagonista a personaggio di contorno, comparsa come tante sullo sfondo di una società impersonale che proprio nel contrasto tra la sua innaturale (e apparente) perfezione e l'umanità (latente) dei suoi interpreti, scopre l'essenza deflagrante di una comicità mai così forte e pregnante. In quadri costantemente sovrappopolati e caotici va allora in scena il capitolo finale di un'epopea umana e sociale e, insieme, l'inizio di un nuovo modo di fare cinema, un'esperienza di rara forza espressiva che riscrive spazi e coordinate, mentre in un puzzle esasperato i corpi danzano goffamente con gli oggetti finendo con lo smarrirsi e, infine, con il confondersi.