Michael è un giovane cileno che, dopo essersi fatto inchiodare le mani al tronco di un albero, si convince di essere la reincarnazione di Cristo. Quando viene a sapere della grave malattia di un suo amico lontano, si mette in viaggio e attraversa tutto il deserto a piedi scalzi per compiere un miracolo. Christopher Murray presenta quello che si direbbe il classico film “da festival” (o quello più vicino a esserlo) di questa 73esima edizione di Venezia. El Cristo Ciego presenta, infatti, tutti gli elementi di un’opera che dichiara e ostenta il proprio traguardo sin dall’inizio: scenari di paesaggi selvaggi e lande desolate, attori alle prime armi, tempi dilatati e riempiti da lunghi minuti di silenzio, contemplazione di volti e luoghi. Il film di Murray si veste da road-movie per narrare, come il genere vorrebbe, il viaggio interiore di chi cerca qualcosa (la fede? La prova inattaccabile della metempsicosi di un dio?) e scopre qualcos’altro. Durante l’estenuante percorso, Michael s’imbatte in diversi individui che provengono da diversi villaggi, ognuno con una propria storia da raccontare, ed è lì per ascoltarli, aiutarli, confortarli. Da non credente, Murray affronta il problema della fede in maniera inusuale, mettendola nelle mani di un “fanatico” protagonista a lui opposto, ma senza mai puntare il dito. La sua terza opera (seconda se non si considera la coregia di Manuel de Ribera, insieme al regista Pablo Carrera) vorrebbe essere distante dal rappresentare una critica alla religione e alla religiosità in sé, e farsi disamina del rapporto fra uomo e religione, fra uomo religioso e altro uomo religioso, tentando di comprenderne le (spesso paradossali) dinamiche e ogni sfumatura, prendendo in considerazione disparati tipi umani. Sarebbe quindi stato interessante, se non doveroso, caratterizzare più approfonditamente la realtà sociale di un’area geografica in cui il territorio è stato privato di ogni risorsa naturale esistente e insediato da abitanti disperati, derelitti e sostanzialmente soli. Il problema di El Cristo Ciego, pertanto, risiede nel rimanere alquanto gelido dinanzi alla più terribile delle verità: il viaggio che Michael porta avanti in mezzo a una società che contempla la fede come unico faro di speranza è un percorso che, incredibilmente, non cambia nulla nel protagonista stesso; è un tragitto infinito e insostenibile ma mai doloroso, fiacco e privo di mordente, un tragitto che non lascia mai nemmeno trapelare l’amara realtà e l’afflizione che contamina le aree del Cile del nord, abbandonate dal mondo e persino dalla propria religione (oltre che, si potrebbe dire, dal regista stesso). Murray, insomma, sforna un progetto ambizioso, che guarda oltre le proprie capacità e che finisce per contemplare sempre e solo se stesso.