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Voyage of Time

07/09/2016 11:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

Voyage of Time

Malick e la sua vetrina sulle meraviglie del mondo

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Spettacolari immagini di vulcani che eruttano il magma incandescente della terra, sterminate distese d’acqua che pullulano di vita, agglomerati di stelle e gas che palpitano e si librano nel vuoto del cosmo e un grande balzo a ritroso nel tempo per scoprire le origini dell’umanità: questo (e molto più) è Voyage of Time, ultima opera di Terrence Malick presentata, al pubblico, in concorso nella settima giornata del festival di Venezia. La ricerca cosmogonica intrapresa, ormai da anni, dall’apprezzato e discusso regista statunitense ci conduce sempre più lontano dal cinema che abbiamo imparato a riconoscere e amare.


Le radici di Voyage of Time possono, difatti, essere fatte risalire al sentiero intrapreso con The Tree of Life, a detta di molti il capolavoro del regista, sicuramente un film ostico e destinato a far discutere ancora molto, non tanto per i suoi contenuti quanto più per la deriva mistica di un nuovo Malick che spesso pare incerto. Ma se in The Tree of Life questo slancio spirituale e new age, questo desiderio di sondare il legame perpetuo che da sempre esiste fra il nostro globo e noi come suoi abitanti, la genealogia del pianeta e il suo posto in un universo di incalcolabile grandezza, erano tutti elementi completivi di una trama essenziale (eppure esistente) e mirata a trovare risposte, Voyage of Time risulta esserne un fiacco approfondimento che, in fondo, nulla aggiunge davvero. Quasi sembra che Malick volesse dapprima costruire una vetrina sulle meraviglie del mondo, impresa che nei primi minuti riesce: Voyage of Time è una passeggiata, oltre lo spazio e il tempo, in giro per il pianeta e un’esperienza sensoriale finalizzata a un dialogo intimo con lo spettatore, che può quindi avvalersi delle immagini per giungere a una scoperta personale. Il tentativo di rendere l’esperienza filmica un viaggio sensorio e introspettivo non è certamente nuovo, ma è da apprezzare e in qualche momento funziona. Proprio per questa ragione, la voce narrante (a tal proposito, si mormora che esista una versione alternativa del film con la voce narrante di Brad Pitt a sostituire quella di Cate Blanchett) spezza in continuazione il flusso spontaneo delle immagini, si intromette nel segreto e sussurrato dialogo fra cinema e spettatore – per pronunciare, peraltro, solo banalità - e risulta da subito insostenibile e inopportuna.


Persino per quanto concerne il lato puramente estetico i dubbi non mancano: l’apporto di tre diversi direttori della fotografia (Paul Atkins, Mark Deeble e Jorg Widmer) per riportare sul grande schermo la potente bellezza di luoghi affascinanti e reconditi, o di momenti rari, è fondamentale, (nonostante la plasticosità di immagini digitali che spesso appaiono poco realistiche) ma stride con il lavoro sugli effetti speciali eseguito da Dan Glass, che consiste nell’utilizzo di una CGI che sfiora il kitsch più di una volta. Insomma, l’ultima fatica di Malick si presenta come un furbo ibrido fra cinema e documentario senza riuscire a convincere pienamente in nessuno dei due campi: tanto il confronto con la maggior parte dei documentari fattibili e possibili oggigiorno - se non per quanto concerne il lato tecnico, quantomeno per quanto riguarda il trasporto emotivo, e non è poco – quanto il paragone con opere filmiche che si precludono lo stesso obiettivo verso cui guarda Malick (ci viene in mente anche solo il folgorante Spira Mirabilis di D’Anolfi e Parenti, anch’esso in concorso a Venezia e anch’esso focalizzato sul grande cerchio dei fenomeni macroscopici e microscopici che ricoprono il globo) risulta a sfavore del regista americano. In ogni modo, se non si presta troppa attenzione alle ambizioni stratosferiche e se ci si limita a seguire il suggerimento del titolo, Voyage of Time può risultare un piacevole viaggio. Il punto è che, purtroppo, quelle ambizioni esistono.


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