Una mattina, un uomo (Daniele Parisi) si alza e legge sul frigorifero un post-it: «Il tuo amico Luigi è morto. Mi sono presa la macchina». Il post-it, lo sa bene, glielo ha lasciato la sua compagna. Quello che non sa è chi sia Luigi e perché, dopo poco, di colpo, incominci a sentire un terribile fischio alle orecchie. Scritto e diretto da Alessandro Aronadio, Orecchie è un interessante progetto selezionato da Biennale College e presentato a Venezia73. Il racconto di un giorno di ordinaria follia, una passeggiata surreale in compagnia del protagonista, durante la quale accadono situazioni paradossali che metterebbero a dura prova la pazienza di un santo. Giocando con il grottesco e il tragicomico, il regista mette in scena la rappresentazione esistenzialista di un mondo routinario e noioso: un bellissimo ed elegante bianco e nero (la fotografia di Francesco Di Giacomo), insieme al formato in 4:3, imbriglia lo sguardo e impreziosisce l’opera. Orecchie incrocia le mille sfaccettature di una certa comicità colta in uno sviluppo narrativo che unisce, in una sintesi armonica, diversi microsketch self standing pienamente realizzati all’interno dell’ecosistema filmico. Attraverso la proiezione di bellissime polaroid di scorci romani, le scene del film ci parlano di un senso assoluto di smarrimento. Piani sequenza assorbono lo sguardo, annullando tutti i sensi fuorché la vista. Lo stile classico e minimale si sposa con i paesaggi alienanti e contemporanei: così, su uno schizofrenico sfondo di dialoghi, siparietti, immagini e primi piani, il film oscilla tra male di vivere e voglia - pigra - di guarire. Il minimalismo della messa in scena è frutto di un lavoro di sottrazione, che svuota di significato l’ordinario per riconsegnarlo, alla fine del film, depurato da ogni elemento di disturbo. Quel senso di fastidio, quel logorio tipico del tempi moderni diventa mimica facciale, la piega forzata di un sorriso; quell’espressione di rassegnazione impotente davanti agli imprevisti della vita di tutti i giorni. Orecchie è un urlo disperato, per recuperare la gioia di vivere e una dimensione più umana. Come il monito del film, anche nella messa in scena troviamo una difficile semplicità, una grammatica leggera ma dal tono intellettuale. Il Postmoderno si fa rumore, ossessionando il protagonista e il pubblico. Nonostante il low budget, il film vanta splendide partecipazioni: Rocco Papaleo, Massimo Wertmuller, Pamela Villoresi, Piera Degli Esposti, Milena Vukotic, Ivan Franek, Francesca Antonelli, Andrea Purgatori, Sonia Gessner, tutti in magnifica forma. Il merito di questo lavoro è la capacità registica di individuare gli interrogativi e i malesseri comuni - figli di un’epoca socializzata, postata, snapchattata - per riconsiderare una terapia di recupero intimista. Abbandonando le nevrosi e silenziando tutto quel frastuono, forse è possibile trovare una forma di distensione; così come l’aspect ratio del film si espande, sull’epifania finale, e allarga lo sguardo.