Presentato in concorso nella sezione Orizzonti della 73esima edizione della Mostra di Venezia, dal Giappone arriva Gukoroku (Traces of Sin), thriller di Kei Ishikawa intriso delle atmosfere tipiche dell’horror psicologico nipponico e improntato sulle vicende che partono da un caso di cronaca nera. Protagonista è Tanaka, un giovane giornalista che viene incaricato di indagare sull’efferato delitto in cui è stata massacrata la famiglia modello dei Takou. L’ossessione per questo caso, ancora irrisolto, è l’unico mezzo di distrazione dalla tragedia personale sfiorata a causa di sua sorella Mitsuko, incarcerata per aver quasi fatto morire la figlia neonata. I nodi che verranno sciolti porteranno il ragazzo verso punti di svolta inattesi, soprattutto per se stesso. Il thriller di Ishikawa è, si potrebbe dire, un cerchio perfetto: il film comincia con uno slow motion che ci mostra Tanaka all’interno di un autobus, e si conclude con una sequenza analoga. Tutto ciò che accade all’interno di questa simmetrica e perfetta struttura circolare, peraltro fatta di geometrie orizzontali di cui si compone lo spazio urbano, è l‘indagine sul caso portata avanti tramite una lenta, lentissima progressione propria del thriller e dell’horror asiatico: la narrazione retrospettiva dipana il racconto in più diramazioni, rinviando continuamente la soluzione finale e disvelando solo gradualmente i più scabrosi nodi della vicenda. Tanaka è uno sguardo esterno e ininfluente, come il fruitore dell’opera di Ishikawa: i flashback prodotti dalle parole degli indagati intervistati conducono lo spettatore verso nuove prospettive depistanti e inaspettate, mirate a generare sospetti e poi demolirli seguendo altre piste dirottanti. Alla trama thriller viene aggiunta, con successo, una moltitudine di sottotemi finalizzati a ritrarre una società , quella giapponese, fatta di vere e proprie gerarchie, un’invisibile piramide cui Ishikawa fa risalire le vere cause degli efferati delitti che costellano la sua storia. Le vicende dei personaggi non sono mai davvero personali, in quanto legate, tramite fili capillari, alla collettività gestita da regole di comportamento stabilite da chi ormai risiede sulla cima della piramide, sommità cui sono giunti mediante arrampicamento e coercizione. Tuttavia, se da una parte non si può che apprezzare senza riserve la scrittura lucida, che segue una linea retta senza prefiggersi lo scopo di confondere lo spettatore e farsi rompicapo irrisolvibile, dunque una scrittura mirata solo a giungere a un traguardo senza l’introduzione di grossi e indistricabili intrecci, dall’altra ci si imbatte in un’eccessiva freddezza nel procedere seguendo uno schema fisso senza arricchirlo di mordente. Pesa, in particolar modo, l’assenza di un colpo di scena (o più d’uno) che non giunge mai, e che pure potrebbe davvero costituire un rilevante punto dinamico nel mezzo di un racconto che procede a passo fin troppo flemmatico.