
1715. Dopo una passeggiata in cortile, il re Luigi XIV (Jean-Pierre Leaud) avverte un dolore alla gamba. Il forte dolore non lo riesce a far dormire. Cerca comunque ad adempire ai suoi doveri, ma il dolore si fa sempre più acuto, tanto da non riuscir più a mangiare e a presidiare alle faccende quotidiane. Il medico di fiducia, Fagon (Patrick D'Assumçao), e i suoi valletti lo seguiranno da vicino giorno e notte. Il mancato riconoscimento di una cancrena alla gamba, porterà il re all'inevitabile morte. Presentato al 69° Festival di Cannes e in anteprima italiana presso il 20+1 Milano Film Festival, La mort di Louis XIV è uno spaccato di vita di uno dei sovrani più importanti di tutta la storia. Il soggetto del film sono le due settimane di confinamento e di agonia del re. È un'agonia continua e ripetitiva, non trattata drammaticamente, ma realisticamente. È il dolore a regnare sovrano, è la malattia che a conquista, giorno dopo giorno, ora dopo ora, nuovi territori, fino alla resa del re Sole. Ambientato nella stanza del re, la pellicola riprende l'idea di Albert Serra di far una performance al museo Pompidou, dove Jean-Pierre Leaud sarebbe dovuto morire in una stanza di vetro. La performance, che per varie vicissitudini non si è potuta fare, dà lo spunto a Serra per realizzare il suo quarto film. Claustrofobico e intimo, il film ci racconta, con tempi rasenti la realtà, gli ultimi momenti di vita di uno degli uomini più potenti della storia. Viene qui raccontata la banalità della morte, i clichè che ne derivano, anche alla corte di Luigi XIV. L'uomo dietro alla leggenda. L'intimità delle stanze del sovrano, il lavoro dei paggetti, la falsità della corte. Il cambiamento del corpo, un corpo che non si riconosce, che non è più suo, che non riconosce gli impulsi, che non mangia, che non dorme, che soffre fino allo sfinimento. Una persona che non riconosce più se stessa, che vede il suo vero io andarsene. La debolezza di uno degli uomini più potenti, messa a nudo in un film che vuole riportare su pellicola ogni attimo di quei momenti difficili, perfettamente descritti nelle memorie dei valletti Saint-Simon e Marquis de Dangeau. Il tutto senza drammaturgia. L'obbiettivo è quello di portare il mito alla banalità, di portare la leggenda alla carne e ossa, all'umanità. Albert Serra riporta sul grande schermo la sua tecnica perfetta, con un cast, in questo caso, non più amatoriale, ma di professionisti e non più catalano, ma francese. La differenza si nota sia nella messa in scena delle sequenze, sia nello sguardo magnetico e espressivo di Jean-Pierre Lèaud, uno degli attori leader della Nouvelle Vague, che qui da un'interpretazione magistrale del re morente, fatta di sguardi e dialoghi al minimo. La regia è costituita da primi piani stretti o al massimo da piani americani, sottolineando i personaggi grotteschi e le loro espressioni, che diventano parte indispensabile del film, in mancanza di dialoghi veri e propri. Una fotografia perfetta, un quadro in movimento, con rossi tizianeschi, ombre caravaggesche e atmosfere lorrainiane. La ciliegina sulla torta è l'uso della sola luce naturale e della candele, ricordandoci il Barry Lindon di Kubrick, che danno al film la giusta atmosfera. Il finale è uno di quelli da ricordare, che risolleva gli animi dopo ore di trama fin troppo lenta per l'intrattenimento cinematografico. La mancanza di colonna sonora rende il film più intimo e realistico, intromettendosi prepotentemente in una sola sequenza, quella della consapevolezza da parte del re della sua imminente morte. La vena ironica, che segue a tratti tutto il film, è quello che ci salva da un altrimenti pellicola troppo pretenziosa.