Dopo aver realizzato cortometraggi visionari, nel 2013 Fede Alvarez - fidato collaboratore di Sam Raimi - esordisce alla regia con il movimentato remake de {a href='https://www.silenzioinsala.com/2196/la-casa-evil-dead/scheda-film'}La casa{/a} (2013), capolavoro del suo mentore. Avendo imparato ulteriori trucchi del mestiere, Alvarez firma adesso Man in the dark, un thriller adrenalinico e claustrofobico che analizza i principali vizi umani e ne dissacra dall’interno ogni singolo aspetto. Detroit. Money (Daniel Zovatto), Alex (Dylan Minnette) e Rocky (Jane Levy) sono giovani e vivono di piccoli furti. Alex, infatti, è il figlio del capo della vigilanza cittadina e quindi ha facilmente accesso ai doppioni delle chiavi delle case più abbienti. Un giorno, il gruppo decidere di derubare Norman (Stephen Lang), un reduce non vedente della Guerra del Golfo che, dopo aver perso la figlia in un incidente, ha ricevuto un cospicuo risarcimento dalla famiglia colpevole. I ragazzi, troppo sicuri della riuscita dell’impresa, scopriranno presto che Norman non è affatto il debole vecchietto che credevano, ma, piuttosto, un avversario davvero pericoloso. Nonostante avesse già mostrato il proprio talento artistico nel suo film d’esordio, Alvarez conferma di non essere un regista sprovveduto, bensì un eccellente burattinaio che orchestra la narrazione in ogni minimo dettaglio e la intarsia di imprevedibili colpi di scena ed effetti a sorpresa. Decidendo infatti di mettere tutti i personaggi sullo stesso piano, fa giocare loro la partita ad armi pari, accecandoli con un’oscurità totale e assoluta. In questo modo, il regista - supportato dal co-sceneggiatore Rodo Sayagues (già suo collega ne {a href='https://www.silenzioinsala.com/2196/la-casa-evil-dead/scheda-film'}La casa{/a}) - porta lo spettatore stesso a sentirsi parte integrante di un gioco perverso e immorale dal quale è impossibile uscire. Davanti alla repentina rottura del confine tra vittima e carnefice, infatti, i protagonisti rimangono intrappolati in una casa buia, piena di sbarre, inferriate, lucchetti e codici di accesso che rallentano e bloccano le loro mosse, riportandoli sempre al punto di partenza. Inglobati dunque in una prigione del corpo e dell’anima, questi brancolano nel buio, si rincorrono in un labirinto tufaceo, giocano a mosca cieca e nascondino e finiscono presto per dimenticarne le regole, divenendo piuttosto esseri ferini e animaleschi. Ormai tutti contro tutti, vengono inseguiti anche da una macchina da presa organica che sceglie deliberatamente di ignorare le mosse rivali per prendere di sorpresa i personaggi e mostrarne i volti stravolti e deformati. Estenuando la suspense con lunghi, logorroici, piani sequenza, turbini di ansia e paura colpiscono i protagonisti – e per estensione gli spettatori stessi, ne intorbidiscono i sensi e li rendono deboli e fragili al pari delle ceramiche che via via distruggono. Man in the dark si rivela un thriller riuscito, singolare e accattivante che riesce perversamente ad intrattenere il pubblico, a divertirlo e persino a spaventarlo.